Nel quarto libro delle Georgiche Virgilio si occupa della piccola realtà delle api, per cui ha un grande interesse e una grande ammirazione. Quasi involontariamente ne trae spunto per inserire una teoria sul rapporto fra Dio e mondo, teoria attribuita ad alcuni e richiamata alla mente dall’argomento trattato: “Da questi segni e osservando questi esempi alcuni hanno detto che le api hanno una parte della mente divina e il respiro dell’etere; dicono infatti che Dio penetra in ogni cosa, le terre, i tratti di mare e il cielo profondo; da Lui il bestiame, gli armenti, gli uomini, ogni specie di fiere, tutti uno per uno alla nascita attingono la loro tenue vita; certamente a Lui tutte le cose sono restituite e ritornano dissolte, e non c’è posto per la morte, ma vive volano nel novero degli astri e si collocano nell’alto del cielo”.
Questa grandiosa visione di un universo pervaso da Dio resta nel poema isolato: subito dopo Virgilio riprende il tema didascalico dell’allevamento delle api e della fatica dell’uomo. Non pare vi sia adesione del poeta alla visione che ha creato. Le api dalle straordinarie caratteristiche, piene di eventi miracolosi e di lavoro condiviso, non danno importanza alla vita individuale, come viene detto poco prima: “Dunque anche se coglie loro stesse il limite della breve vita, infatti non vivono più della settima estate, la stirpe resta immortale, e attraverso molti anni rimane la sorte di una famiglia e si contano gli avi degli avi”.
Ma è lo stesso anche per gli uomini? Anche per loro questa visione panteistica, in cui ciascuno si dissolve nel tutto, è accettabile?
Il tema ritorna in un passo del sesto libro dell’Eneide. Anche qui si tratta di un motivo occasionale: giunto nell’Ade, Enea incontra il padre Anchise che gli spiega la sorte delle anime dopo la morte e vi inserisce la concezione di una divinità immanente che vivifica tutta la realtà: “Anzitutto il cielo e la terra e le distese acquee e lo splendente globo della luna e le stelle divine sono alimentate dallo Spirito all’interno; una Mente diffusa per le sue membra muove tutta la mole del mondo e si mescola al grande corpo. Da qui hanno origine la stirpe degli uomini e degli animali e delle vite volatili e dei mostri che il mare porta sotto la lucente distesa”.
Ma questa nuova visione termina con la sorte ultraterrena degli uomini: le loro anime, che hanno in sé “un vigore di fuoco e un’origine celeste”, sono destinate all’aldilà, dove pagano le loro colpe e, purificate, sono pronte per reincarnarsi.
La concezione virgiliana si muove liberamente fra le diverse teorie sull’uomo: all’idea dell’appartenenza ad un tutto divino si unisce la responsabilità individuale, che comporta colpa e necessità di correzione in diverse forme e modalità, e al termine un nuovo destino. La reincarnazione è in realtà una teoria delle filosofie orientali, dove si tratta sostanzialmente di una punizione, più volte ripetuta fino al desiderato annullamento nel tutto: in ambito greco-romano la libertà dell’uomo e la sua identità non vengono meno: nell’antecedente platonico rispetto al passo virgiliano, il mito di Er che conclude la Repubblica, è l’anima che si reincarna a scegliersi la nuova vita; in Virgilio il destino è tracciato, ma può essere modificato per l’azione dell’uomo.
L’idea dell’appartenenza al tutto giunge a Virgilio da una delle filosofia greche dell’età ellenistica, lo stoicismo, gli alcuni da lui citati. Purtroppo di questa scuola si sono perse le opere, restano solo frammenti, per cui non possiamo avere una comprensione precisa del pensiero. Gli unici testi interi rimasti sono anche qui testi poetici: uno è l’Inno a Zeus di Cleante, in cui il poeta mescola l’immagine tradizionale del dio e la nuova concezione immanentistica: “Tutto questo universo che intorno alla terra si avvolge a te obbedisce dove lo conduci e spontaneamente accetta il tuo dominio: tale ministro possiedi nelle tue mani invincibili, il bifido fulmine di fuoco sempre vivente, sotto i cui colpi stanno tutte le opere della natura: con esso regoli il logos universale che in ogni cosa si aggira mescendosi alla grande e alle piccole luci”.
L’altro è il proemio dei Fenomeni di Arato, che san Paolo cita nel discorso all’Areopago: “Sono piene di Zeus tutte le vie, tutte le piazze degli uomini, ne è pieno il mare e i porti: in tutto abbiamo bisogno tutti di Zeus. Di lui infatti siamo la stirpe”.
Ma se i due poeti identificano Dio in Zeus, salvandone quindi un’identità personale, nel pensiero dei filosofi la realtà divina immanente, che tutto pervade, sembra restare impersonale, fuoco, mente, anima, logos: un dio non accessibile, seppur provvido. D’altra parte il pensiero a loro contemporaneo di Epicuro, se salva l’esistenza degli dèi, li esclude dal rapporto col mondo e con gli uomini: in una concezione che vede nella imperturbabilità l’ideale ultimo, dio non può né creare, né provvedere, né punire, né udire una preghiera, né tanto meno amare, la più sconvolgente delle passioni. Un dio che ama è impossibile. Ma forse noi sentiamo più vicini (e in fondo anche Cleante ed Arato) i poveri dèi antropomorfi, passionali e irosi, capaci di predilezioni e affetti.
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