Tradizionalmente la prestazione lavorativa del dipendente è stata considerata un’obbligazione “di mezzi” consistente nella messa a disposizione di tempo e di energie lavorative alle dipendenze del datore di lavoro; e ciò in alternativa alle cosiddette obbligazioni “di risultato”, tipiche del contratto di appalto e di alcune forme del rapporto di lavoro autonomo, che hanno invece per oggetto la realizzazione di un determinato facere (un progetto, un’opera, una prestazione professionale) a prescindere dal tempo, dal luogo e dal modo in cui il risultato viene realizzato dal prestatore.
Salvo particolari fattispecie (per esempio il lavoro “a cottimo” tuttora residualmente esistente e disciplinato dall’art. 2100 c.c. oltreché da alcuni contratti collettivi), il lavoratore dipendente è dunque tenuto a “dare un certo tempo” al datore di lavoro, osservando “le disposizioni impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende” e con la diligenza ordinariamente “richiesta dalla natura della prestazione dovuta” (art. 2104 c.c.) e non si ritiene “responsabile” del “buon fine” della propria attività.
Senonché, così come le tradizionali differenze tra il lavoro autonomo e il lavoro subordinato stanno venendo meno (si pensi alle cosiddette “collaborazioni organizzate dal committente” previste dall’art. 2 del D.Lgs. 81/2015 alle quali, ferma la natura autonoma del rapporto, “si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato” qualora “si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”), allo stesso modo anche la storica distinzione tra obbligazione “di mezzi” e obbligazioni “di risultato” sta andando nel tempo sfumandosi, divenendo sempre più obsoleta.
E invero, anche nel rapporto di lavoro subordinato si va profilando una “prestazione” sempre più tesa ai risultati a prescindere dal tempo di lavoro e dalla “mera messa a disposizione dell’energie del dipendente”, in linea con la nota “collaborazione a progetto” (introdotta dal D. Lgs. n. 276/03 e poi ricondotta nell’alveo delle collaborazioni coordinate e continuative dal D. Lgs. n. 81/2015).
Già nell’ambito dirigenziale, che riguarda un rapporto di lavoro sui generis, si segnalano sentenze che hanno ritenuto giustificato il licenziamento del dirigente che non abbia conseguito i risultati promessi. Così è stato nel caso di un dirigente con ruolo di responsabile delle vendite il quale, all’atto di assunzione e successivamente anche nel corso del rapporto, si era impegnato per iscritto a “perseguire” determinati “obiettivi commerciali” (raggiungimento di un determinato fatturato, acquisizione di nuovi clienti, ecc.). Non avendo raggiunto i risultati prefissati, il dirigente veniva licenziato.
La Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del licenziamento, ha ricordato che “non è revocabile in dubbio che costituisca inadempimento, da parte del dirigente, il mancato ottenimento di risultati economici e produttivi favorevoli per l’imprenditore, una volta che al loro conseguimento lo stesso si sia, come nella specie, reiteratamente impegnato a meno che, evidentemente cause esterne ostative e indipendenti dal comportamento del dirigente stesso si siano irrimediabilmente frapposte”. Ciò posto, ritenuto provato il mancato conseguimento degli impegni assunti dal dirigente e rilevata l’assenza di eccezioni sollevate dallo stesso circa la sussistenza di oggettivi impedimenti che abbiano impedito il raggiungimento dei risultati liberamente concordati, la Corte ha dichiarato giustificato il licenziamento (Cass. n. 2639/2002).
Di recente, anche nelle fasce lavorative inferiori, sono sempre più frequenti gli interventi della giurisprudenza volti a scrutinare il rendimento del dipendente, ritenendo giustificato in caso di scarso rendimento non soltanto la mancata erogazione dei bonus o delle parti retributive variabili, ma financo il licenziamento.
In particolare, la giurisprudenza riconduce la fattispecie del “licenziamento per scarso rendimento” nell’ambito del recesso per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore. Con sentenza n. 14310 del 2015 la Cassazione, pur ribadendo sul piano teoretico che il rapporto di lavoro subordinato rimane un’obbligazione di mezzi e non di risultato – con la conseguenza che il mancato raggiungimento del risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento – ha chiarito che laddove siano individuabili “parametri” oggettivi “per accertare che la prestazione sia eseguita con la diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore, il discostamento dai detti parametri può costituire indice di non esatta esecuzione della prestazione”.
Sulla scorta di tali principi, la Corte ha ritenuto giustificato il licenziamento di un impiegato di un’impresa di telefonia il quale, in due settimane, aveva raccolto rispettivamente soltanto due e quattro ordini a fronte di una media degli altri buyers di oltre 40 ordini al giorno e 200 alla settimana.
Anche il Tribunale di Pisa, con decisione del 5.6.2017, ha ritenuto legittimo il licenziamento per scarso rendimento comminato da una società cooperativa a un operaio addetto di magazzino. In particolare la cooperativa svolgeva attività di logistica in forza di contratti di appalto sottoscritti con diverse società clienti. Il contratto di appalto, nell’ambito del quale l’operaio poi licenziato prestava la propria attività lavorativa, prevedeva precise tempistiche entro le quali doveva essere svolta l’attività di ogni singolo operatore (“n. 115 colli lavorati nel settore di magazzino per ciascuna ora dal singolo preparatore, ovvero, per il settore FM, in n. 160 colli/ora”). Il dipendente si era significativamente scostato dai predetti tempi di lavorazione movimentando in un mese una media di soli 16,9 colli all’ora. Inoltre, la Società aveva provato in giudizio che tra una lavorazione e l’altra l’operaio, anziché impiegare un tempo standard di circa un minuto, impiegava circa 10/15 minuti.
Il Giudice, pertanto, ritenuto provato lo scarso rendimento del dipendente, protratto e significativo, e dunque il venir meno della fiducia del datore di lavoro in merito all’esatto adempimento de futuro, ravvisava la giusta causa di licenziamento. Non solo. Secondo il Tribunale di Milano anche la cosiddetta “eccessiva morbilità”, dovuta a reiterate assenze per malattia (ancorché veritiere), rientra nella fattispecie del c.d. “scarso rendimento” laddove, proprio a causa delle continue assenze, la prestazione lavorativa non sia più sostanzialmente utile al datore di lavoro.
Il caso deciso dal Giudice del lavoro di Milano riguardava un addetto alla sorveglianza licenziato perché negli ultimi sei anni di rapporto era stato assente per malattia per un massimo di 175 giorni e un minimo di 127 giorni ogni anno (a fronte di un massimo di 135 giorni e un minimo di soli 80 giorni lavorati).
Con la sentenza n. 1341 del 2015 il Tribunale ha ritenuto l’irrilevanza giuridica del mancato superamento del periodo di comporto da parte del dipendente (periodo durante il quale il lavoratore assente per malattia ha diritto alla conservazione del posto di lavoro) considerato che, nel caso di specie, “la malattia non viene in rilievo di per sé… ma in quanto le assenze in questione, anche se incolpevoli, davano luogo a scarso rendimento e rendevano la prestazione non più utile per il datore di lavoro, incidendo negativamente sulla produzione aziendale”.
Fatta questa premessa, il Giudice ha dichiarato legittimo il licenziamento tenuto conto anche del breve preavviso con il quale il dipendente comunicava la propria assenza (anche solo 30/40 minuti prima); della breve durata delle assenze intervallate da limitati rientri lavorativi; dell’evidente “necessità della società di poter confidare sulla presenza quotidiana dei singoli addetti alla vigilanza”, pena la scopertura di alcuni servizi resi e la conseguente possibile perdita di clientela; degli “evidenti disservizi” causati al datore di lavoro dalle numerose, continue e spesso improvvise assenze del dipendente che costringevano la società a riorganizzare i servizi in tempi strettissimi ricorrendo a ore di straordinario di altri dipendenti: elementi questi che, ad avviso della sentenza, costituivano una forma di “scarso rendimento” rendendo inutilizzabile la prestazione lavorativa.
La giurisprudenza citata, pur trattando casi ancora residuali, si pone in una traiettoria che sposta sempre di più il focus dell’attività lavorativa (anche di carattere subordinato) dal tempo messo a disposizione ai risultati conseguiti.
Vedremo come il Legislatore saprà disciplinare e regolare questa tendenza evitando insostenibili eccessi, e dunque di tornare a nuove forme di cottimo piuttosto che a un esasperato ipergarantismo dei lavoratori dipendenti. I più recenti interventi legislativi in materia di smart working (L. 81/2017) si collocano in questa traiettoria e sembrano andare nella giusta direzione.