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Home » Sanità, salute e benessere » L’ORDINE PATROCINA IL BRIANZA PRIDE/ Il medico: la cura è già per tutti, non calpestate la nostra missione

  • Sanità, salute e benessere

L’ORDINE PATROCINA IL BRIANZA PRIDE/ Il medico: la cura è già per tutti, non calpestate la nostra missione

Giorgio Bordin
Pubblicato 26 Settembre 2025
Gay pride, LGBT

Gay pride (Foto: Pexels)

L’Ordine dei Medici di Monza dà il patrocinio al Brianza pride: le motivazioni suonano come un mea culpa di discriminazioni per le persone LGBTQI+

Egr. direttore,

sono medico e lavoro in un ospedale brianzolo, pur essendo iscritto all’ordine dei medici di altra provincia. Ho appreso da colleghi con spiacevole stupore dell’iniziativa pubblicata il 23 settembre dall’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri della provincia di Monza e Brianza (OMCeOMB) di concedere il patrocinio alla manifestazione Brianza Pride, prevista ad Arcore sabato 27 settembre.


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Nel comunicato è scritto: “Le persone LGBTQI+ sono maggiormente esposte a disparità, stigmatizzazione e discriminazioni in ogni aspetto della vita quotidiana, incluso l’accesso ai servizi sanitari, con importanti ricadute sulla salute”, dichiara il Dott. Carlo Maria Teruzzi, Presidente OMCeOMB. “Numerosi studi lo dimostrano: il rapporto pubblicato dalla European Cancer Organization (ECO), ad esempio, evidenzia le difficoltà quotidiane legate alla discriminazione, alla carenza di competenze specifiche nel personale sanitario e a un accesso spesso limitato o inadeguato ai servizi.” Tra le principali conseguenze di questo scenario si registrano diagnosi tardive, screening insufficienti e trattamenti non ottimali, non solo in ambito oncologico ma in molteplici aree della salute».


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La dichiarazione suona come un mea culpa della medicina di contribuire a perpetrare queste discriminazioni se non anche stigmatizzazioni, responsabili della gravi conseguenze di cui la classe medica risulterebbe almeno in parte responsabile.

Esiste uno stigma, fattore di discriminazioni, ma si tratta di uno stigma sociale, in una società in cui proprio la medicina si è da sempre impegnata a curare e promuovere la ricerca per offrire le soluzioni più efficaci e le organizzazioni più adeguate, a favorire l’accesso alle cure di chiunque, indipendentemente da qualsiasi giudizio sociale e spesso contribuendo a indebolire le discriminazioni nei fatti, a costruire cultura più inclusiva.


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Il prendersi cura nasce da lontano, dai primi secoli del cristianesimo, quando di fronte alle pestilenze che falcidiavano l’Impero Romano, uomini e donne si occupavano di assistere malati anche estranei e di ogni confessione, in un mondo che riteneva la malattia tout court il segno della colpa individuale o dei progenitori. L’assistenza e l’ospitalità ai malati è fiorita nel perdurare della gratuità di una azione caritatevole, fino a strutturare qualcosa che non era mai esistito prima o in altre culture: gli ospedali, nei quali è stata ripresa l’arte medica e la scienza a supporto dell’efficacia dell’assistenza.

Da questo connubio è nata la medicina occidentale che si è diffusa oggi in ogni cultura per le sue caratteristiche indiscusse e invidiabili di efficacia e umanità. Un tratto distintivo dell’azione di cura, sia per l’imparzialità della scienza, sia per la disposizione intrinseca della professione medica ad una dose di umanità che neppure il peggio materialismo positivista ha saputo eliminare, è nell’imperativo che la cura è rivolta a tutti, indipendentemente dal fatto che la malattia possa essere esito di comportamenti moralmente eccepibili.

Il pullulare di malattie infettive sessualmente trasmesse tra la fine del diciannovesimo e i primi decenni del ventesimo secolo non ha evitato né la cura né la ricerca di soluzioni efficaci, proporzionali alle conoscenze di allora. Ma anche quando sono in gioco aspetti del comportamento con minori risvolti morali, non si è mai deciso per esempio di non curare un cirrotico che prosegue nelle sue abitudini alcooliche o un fumatore irriducibile al peggiorare della sua bronchite cronica o dell’arteriopatia degli arti. Anzi, la ricerca ha cercato strade terapeutiche sempre più efficaci e gli ambulatori e gli ospedali sono e rimangono sempre aperti a chi si presenta con una domanda di salute, quale che sia la sua origine.

(Ansa)

Ciò che la scienza ha fatto nel campo dell’infezione da HIV è stato per quegli anni sbalorditivo anche per la stessa comunità scientifica, in termini di quanto è stato ottenuto in così poco tempo. Per non parlare dei successi odierni terapeutici sull’AIDS e dello sforzo educativo che si compie dentro il percorso sanitario per sanare non solo l’infezione ma anche il senso di colpa residua che molti malati portano inevitabilmente con sé. Queste conquiste sono state rivolte a favore di malati che la mentalità prevalente di allora emarginava come peccatori prima che infermi.

I progressi per la lotta al carcinoma correlato all’infezione da HPV sono sotto gli occhi di tutti e la ricerca prosegue analogamente in ogni altro ambito inerente la salute individuale o collettiva, nei modi e nei risultati di cui la scienza attuale è capace.

C’è una “carenza di competenze specifiche nel personale sanitario” e “un accesso spesso limitato o inadeguato ai servizi”?

La risposta è sì indubbiamente. La realtà dei sistemi sanitari è in progresso continuo e dunque sempre inadeguata, è “già e non ancora” come dicevano gli antichi, ma questo vale in ogni campo di prevenzione (poca in tutto il mondo) o di cura, sia che riguardi le malattie sessualmente trasmesse come anche le patologie cardiovascolari, le malattie immunologiche o degenerative, quelle infettive, oncologiche o i disturbi cognitivi… potremmo proseguire.

Manca molto ma quel che c’è non è poco. Il nostro Servizio Sanitario si è fondato sull’Universalismo, esito e nel tempo stesso obiettivo di garanzia di questa posizione di apertura indiscriminata alla tutela della salute degli infermi.

Dunque ogni sforzo per migliorare va fatto, ma non si può lasciare in filigrana il messaggio che proprio la medicina soffi sul fuoco dello stigma e della discriminazione.

Cosa può fare allora l’Ordine, in tema di sua competenza? Quello che ha sempre fatto: vigilare su comportamenti non adeguati alla deontologia e insieme favorire proattivamente il miglioramento e la diffusione di una cultura coerente al senso e allo scopo dell’arte medica. Ma al tempo stesso, se può condannare comportamenti difformi dalla deontologia è proprio perché la deontologia nasce per affermare i principi inviolabili della nostra professione che vanno difesi non solo dalle derive ma anche da ogni falsa accusa motivata da interesse, calcolo o solo ignoranza.

In ogni campo dell’umano, ripartire dai propri limiti per migliorare è una posizione critica necessaria anche metodologicamente, ma che non toglie l’orgoglio di appartenere ad una storia virtuosa nemica dello stigma e della discriminazione e in cui i professionisti che lavorano bene sono più di quelli che lavorano male. I soli dati sanitari italiani lo documentano negli esiti migliori di altri paesi nonostante risorse ridotte: c’è una lunga onda di capacità di dedizione gratuita al bene del malato, motivata dall’amore al valore che la persona ha e non misurata sulla sua coerenza ai comportamenti dettati dalla morale o dal potere. Cerchiamo di non perderne il senso e la motivazione, altrimenti c’è il rischio che si esaurisca.

Tuttavia questo lavoro nobile ordinistico ha anche due condizioni per non tracimare dai limiti istituzionali che lo connotano.

In primo luogo va perseguito dall’interno della dinamica professionale, in un’azione di dialogo e supporto ai professionisti della sanità. La manifestazione patrocinata non ha nulla di sanitario, non si occupa di cura: basta leggere il programma. In quanto al programma è anche evidente che non c’è alcun tentativo da parte degli organizzatori di porsi in dialogo altrettanto inclusivo quanto ricercato come conquista. Personalmente lo trovo volgarmente sprezzante e offensivo dei valori che sono proprio alla radice dell’origine della cura e che mi costituiscono. L’evento non è di certo rappresentativo delle istanze della comunità medica e un ordine professionale non può non tenerne conto.

Secondo: deve saper portare nella sua azione culturale tutte le fragilità e le povertà che oggi trovano inadeguata risposta, avere uno sguardo ampio, valorizzatore non solo di ciò che è mainstream, ma anche di ciò che oggi è scomodo, va controcorrente e di cui invece non si parla. Una menzogna è una verità che rimane parziale, come affermava Soren Kierkegaard.

Ci sarebbe, last but not least, anche una terza sottolineatura. Una posizione culturale autentica è libera dal potere, ma l’ingenuità della debolezza culturale ne è irrimediabilmente schiava. Il mio desiderio è di avere Ordini forti che sostengano la verità della professione per cui ho dato tutta la mia vita fino ad ora e che non voglio abbandonare.

 

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