In questi mesi è ritornato prepotentemente alla ribalta il tema degli orrori giudiziari, che ha alcuni precedenti importanti in Italia
Qualche settimana fa ho avuto la fortuna di incrociare un ex colonnello dell’aeronautica che ha aperto un mondo, per me, fino a quel momento poco esplorato: le neuroscienze.
Tecnicamente rappresentano un campo vasto e complesso, che mira a svelare i misteri del cervello e del sistema nervoso, con l’obiettivo di migliorare la nostra comprensione del comportamento umano e di sviluppare nuove terapie per le malattie neurologiche e psichiatriche.
Praticamente si spinge anche allo studio dei processi cognitivi, del modo con cui si formano le nostre idee, ma anche le nostre convinzioni.
La parte che mi intriga e un po’ mi preoccupa è soprattutto quella che riguarda la capacità di indagare i metodi di persuasione (anche di massa) e di manipolazione (anche delle informazioni).
Tante volte nelle indagini e nei processi mi sono reso conto che il metodo di formazione e di trasmissione delle informazioni e delle conoscenze potesse essere influenzato da qualcosa, ma non avevo mai avuto la possibilità di approfondire.
Lo stesso modo di porre una domanda a un testimone o all’imputato può riuscire a condizionare la risposta. Per non parlare del preconcetto ideologico o esperienziale che può rappresentare, se non correttamente gestito, un macigno per la decisione corretta.
Alcuni studiosi del settore giuridico hanno approfondito, ad esempio, l’estrema fallacia del cosiddetto contributo dichiarativo. La testimonianza e finanche la confessione possono portarsi dietro insidie spesso invisibili.
Tanti processi con fior fiori di professionisti si sono dimostrati, anche dopo parecchio tempo, farse clamorose. Vicende da “Oggi le comiche”, se non fosse che in questi luoghi si giocano sorti personali e si incide su vite umane.
Basta pensare al forse più clamoroso di tutti: il processo al famoso presentatore televisivo Enzo Tortora, diventato l’emblema della mala giustizia in Italia. Ma non si può non ricordare anche il primo processo Borsellino, per la strage di via D’Amelio: un’indagine e quindi un giudizio completamente falsi dall’inizio alla fine.
Una vergogna giudiziaria, mai sufficientemente approfondita, che meriterebbe di essere studiata all’università per spiegare come non si debbano condurre un’attività investigativa e il conseguente processo.
Probabilmente una riflessione più seria sui precedenti errori non avrebbe portato al sostanziale fallimento del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia e a tante altre indagini che poi si sono tradotte in un nulla di fatto.
Che poi è un commento assai facile da fare, quando il danno è realizzato, ma è un atteggiamento che rischia di trascurare il mondo di sofferenze, dí frustrazione e dí sacrifici che si porta dietro un processo sbagliato.
Ai giorni d’oggi, è ritornato prepotentemente il tema degli orrori giudiziari. Ormai da settimane non si parla d’altro che del clamoroso caso Garlasco, nel quale, dopo oltre 18 anni, si sta rimettendo praticamente tutto in discussione, segno a quanto sembra, di un approccio, almeno, superficiale alla vicenda o addirittura di preoccupanti depistaggi.
Non si può liquidare troppo facilmente la cosa come un quasi fisiologico errore giustificabile del sistema. Perché un sistema buono dovrebbe contenere in sé le procedure per evitare, nei tre e spesso più gradi di giudizio, simili esiti fallimentari.
La magistratura per prima ha l’obbligo di interrogarsi e di intervenire, per tutelare la propria onorabilità, ma prima ancora per assicurare un servizio giustizia attrezzato e affidabile.
Il caso Garlasco, comunque andrà a finire, si può già classificare come un caso di mala giustizia. Pensare, infatti, che dopo tanti anni si possa rimettere tutto in gioco, apre scenari inquietanti sulle modalità di gestione delle attività investigative e crea un vulnus straordinario alla intangibilità del giudicato.
Sarà difficile, e in verità lo è già ora, non dubitare della colpevolezza di Alberto Stasi, anche se i nuovi accertamenti dovessero concludersi con nuove altre verità.
Siamo ormai col fiato sospeso rispetto agli esiti dell’incidente probatorio da cui dovrebbero arrivare risposte rassicuranti, in un senso o nell’altro.
Non c’è sera che un qualche programma di approfondimento non ci propini discussioni spesso sterili sulle varie posizioni in campo. Ma in una spettacolarizzazione incontrollata e incontrollabile quello che sta sfuggendo è il vero senso della giustizia.
Nel caso Garlasco difficilmente si riuscirà ad avere in tal senso una risposta definitiva. Sicuramente non per effetto di coloro che valorosamente stanno cercando di raddrizzare qualcosa che temo sia pesantemente, se non definitivamente, compromesso. Ma c’è da chiedersi come mai a distanza di tanti, troppi anni, quando ormai lo stesso Stasi, che ha quasi espiato tutta la pena, non ci sperava più, si possa rimettere tutto in discussione.
Dall’attenta lettura delle migliaia di pagine di motivazione in cui i vari giudici offrono la ricostruzione del loro rispettivo percorso logico, mi colpiscono le tante lacune investigative. E oggi c’è da chiedersi se siano state solo frutto di disattenzione o di premeditazione.
Purtroppo, però, una certezza c’è già: ha perso la giustizia e questo non aiuta a recuperare l’autorità e l’autorevolezza che il sistema giustizia deve avere in un Paese democratico.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
