Suicidio assistito: Martina Oppelli deceduta in Svizzera. La campagna mediatica per il diritto a morire continua. Ma l’unico diritto è quello alle cure

Ieri mattina è morta in Svizzera Martina Oppelli; una donna di 50 anni, che da oltre 20 anni era malata di sclerosi multipla. La causa della morte non è stata però la sclerosi multipla, ma il suicidio medicalmente assistito, ottenuto grazie all’immancabile contributo dell’Associazione Luca Coscioni, che, come è sempre, ha fornito la sua instancabile collaborazione.



A Martina Oppelli mancava una delle quattro condizioni poste dalla Corte costituzionale con la sentenza 242 del 2019; era perfettamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, soffriva di una patologia irreversibile, che le causava sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, ma non aveva bisogno di trattamenti di sostegno vitale, per cui non aveva ottenuto l’autorizzazione al suicidio. Per ben tre volte l’ASL triestina le aveva rifiutato a buon diritto una autorizzazione, che andava contro la normativa attuale.



Il viaggio della morte intrapreso da Martina Oppelli con Claudio Stellari e Matteo D’Angelo, membri di una Associazione di cui è rappresentante legale Marco Cappato, aveva tra l’altro questo specifico obiettivo di chiaro intento biopolitico: rimuovere i vincoli posti dalla sentenza della Corte costituzionale e aprire decisamente alla possibilità di un suicidio assistito facilitato, accessibile a chiunque ne faccia richiesta purché sia pienamente consapevole di quel che fa e se ne assuma la responsabilità.

È questo il centro della questione, portata avanti dall’Associazione Coscioni che si chiede cosa debba intendersi per sostituzione di una funzione vitale: se l’organismo deve essere del tutto incapace di funzionare autonomamente oppure se si tratti di un semplice sostegno.



Martina Oppelli è diventata, rendendosene conto non so fino a che punto, la testimonial di una campagna in cui la piena liberalizzazione del suicidio assistito dipende dalla risposta a questa domanda: la dipendenza dall’assistenza continuativa dei caregiver e da presidi medici ordinari, come ad esempio sono farmaci, catetere e macchina della tosse, può essere equiparata a trattamenti di sostegno vitale, la cui sospensione causa necessariamente la morte? In questo caso si tratterebbe di nutrizione, idratazione, respirazione, ecc.

Al senso comune sembra proprio che non ci sia e non si possa neppure parlare di stretta analogia, a meno che non si voglia spalancare la porta al suicidio assistito sospendendo qualsiasi vincolo di controllo.

E la sensazione è che anche il caso di Martina Orpelli rientri in questo percorso accuratamente disegnato da chi vuole fare del diritto a morire un diritto senza vincoli di sorta, in cui l’unica cosa che conta è la volontà del soggetto, fino al momento in cui anche quella verrà progressivamente declassata fino a scomparire, perché la fragilità del soggetto avrà fiaccato anche le sue ultime risorse.

Perché c’è un esaurimento progressivo delle proprie energie davanti ad un bombardamento mediatico continuo che sta facendo del suicidio un diritto da esigere ad ogni costo. Non solo, offre anche una affermazione mediatica della propria vita e della propria personalità, con diritto di cronaca e possibilità di occupare le prime pagine di tutti i giornali, monopolizzando il dibattito parlamentare.

Solo pochi anni fa sarebbe stato inimmaginabile pensare ad una tale esaltazione del suicidio, mentre lottiamo in mille modi diversi per sottrarre gli adolescenti a quella che appare a tutti gli effetti la seconda causa di morte. E mentre il suicidio sembra la soluzione attesa da tanti malati, nessuno sa quanti siano, considerando il ritmo programmato con cui appaiono ormai quasi quotidianamente sui media, molti altri malati provano a far sentire la loro voce senza trovare risposta, né tanto meno ottengono la giusta risonanza sulla stampa. Manca la voce dei pazienti che vogliono vivere, nonostante la loro malattia e la previsione che pur essendo inguaribile, possa comunque essere curabile.

Sono malati che chiedono tempi certi e risorse adeguate a vivere un percorso di fine vita dignitoso, in cui si abbia un adeguato supporto dal Servizio sanitario nazionale, per assicurare le cure necessarie a tutti, in tutte le fasi di malattia. È il paradosso delle cure palliative, considerate indispensabili da tutti, ma non ancora sufficienti in quantità e qualità, per garantire in tutto il Paese la giusta distribuzione, su misura dei bisogni delle persone.

Si parla di suicidio come di un diritto da garantire ad ogni costo, mentre il vero diritto è il diritto alle cure, questo si da garantire a tutti gli aventi diritto. Ma questo non fa abbastanza notizia, mentre comincia ad affacciarsi il timore che tanto parlare di suicidio crei una pericolosa emulazione e che la solidarietà si misuri più dall’aiuto a morire che nell’aiuto a vivere. Né è possibile dimenticare che in Senato si sta discutendo di una legge nazionale, diversamente interpretata tra chi vorrebbe sancire un diritto a morire, chi vorrebbe attenersi rigorosamente ai criteri della Corte costituzionale, e chi vorrebbe circoscrivere ancor più rigorosamente il perimetro della non punibilità dell’aiuto al suicidio assistito.

C’è poi chi non vorrebbe nessuna legge, con il rischio di lasciare però troppo spazio a questa sorta di far west suicidiario, in cui i suicidi si cominciano a susseguirsi ad un ritmo davvero insopportabile. “Fate una legge sensata”, ha sottolineato Martina Oppelli prima di morire, E chissà che il testo base proposto dalla maggioranza non sia proprio la legge sensata che si sta cercando… Varrebbe la pena di analizzarla con più attenzione di quanto non si sia fatto finora, anche alla luce del nuovo ritmo con cui si stanno succedendo i suicidi.

 

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