Il 17 giugno cadranno i 50 anni da una delle partite che hanno fatto la storia del calcio a livello assoluto. Italia-Germania 4-3, semifinale dei Mondiali in Messico nel 1970. Un match anonimo finché Karl-Heinz Schnellinger non infilò la porta di Albertosi praticamente allo scadere, quando l’Italia sembrava aver confezionato un capolavoro tattico in altura. Da lì partirono i supplementari più leggendari della storia del football, l’Italia va sotto, ribalta il risultato, si fa raggiungere e poi firma il definitivo 4-3 con Rivera. Uno dei protagonisti azzurri dell’epoca, Sandrino Mazzola, è intervenuto a Radio Rai in “Un giorno da pecora” per raccontare le emozioni di quel match indimenticabile che vide proseguire la famosa “staffetta” con Gianni Rivera. Dai quarti di finale contro il Messico infatti il ct Valcareggi alternò Rivera e Mazzola tra il primo e il secondo tempo, ad eccezione della finale in cui concesse a Rivera solamente 6′ discussi minuti finali.
MAZZOLA: “NON SCORDERO’ MAI LE FACCE DEI TEDESCHI
Sandro Mazzola ha ricordato così quella partita da leggenda: “Tutti pensavano che avremmo perso, ma ci fu qualcosa tra noi giocatori, un qualcosa che ci dava la consapevolezza di esser forti. Volevamo far vedere che gli italiani erano qualcosa di eccezionale. E ci riuscimmo.La faccia ed il fisico giocatori tedeschi non riuscivano a lasciare il campo, loro erano fortissimi, più forti di noi. Noi non potevamo crederci”. In molti si chiesero se fosse davvero necessario il dualismo con Rivera, se davvero i due non potessero giocare assieme: “Gli italiani sono sempre speciali…si preferiva la questione tattica, nessuno dei due andava a marcare l’avversario. Quando Rivera sbagliò facendo segnare il 3-3 ai tedeschi pensai: “Il solito milanista… Rivera però dimostrò di avere un grande carattere segnando un minuto dopo. Quello vuol dire che hai carattere e qualità. L’importante comunque era che qualcuno segnasse quel benedetto 4-3“. Sul rapporto col “Golden Boy, poi, Mazzola se la cava con una battuta: “Oggi siamo amici, sì. Ma prima...”