Gli USA rientrano a Kobane per sostenere i curdi e contenere l'Iran, mentre la riattivazione dell'oleodotto Kirkuk-Ceyhan ritraccia gli equilibri
A fine 2024, dopo sei anni, gli USA sono rientrati nella base di Kobane, nel Kurdistan siriano, al confine con la Turchia, e l’hanno potenziata per sostenere le milizie curde e contenere l’Iran dopo la rivoluzione della nuova Siria. Tanto che qualche analista aveva scritto di un dilemma americano per la possibile scelta tra la stabilità siriana garantita dalla Turchia o la protezione degli alleati curdi.
È stata l’ultima carta del risiko mediorientale dell’anno. Un anno rivoluzionario per la geopolitica della regione, che in realtà era iniziato il 7 ottobre 2023. Anche se, dopo la strage di israeliani da parte di Hamas, nessuna analisi si era neanche lontanamente avvicinata ai fatti che poi sarebbero accaduti.
Da allora ad oggi, l’insediamento di Donald Trump ha impresso una forte accelerazione all’evoluzione dei rapporti di forza tra i vari attori nel quadrante. L’ultimo atto riguarda l’amministrazione USA.
Il segretario di Stato USA, Marco Rubio, e il primo ministro iracheno, Muhammad al-Sudani, “hanno convenuto sull’importanza di raggiungere l’indipendenza energetica dell’Iraq” e stanno lavorando con forza per riattivare in tempi brevi la funzionalità dell’importante oleodotto che collega i campi petroliferi di Kirkuk, nel Kurdistan iracheno, con il porto di Ceyhan, nel Mediterraneo turco.
Secondo Enerdata, inoltre, il ministero del Petrolio federale iracheno ha annunciato che sono state completate tutte le procedure per consentire la ripresa delle esportazioni di petrolio entro pochi giorni dal governo regionale semi-autonomo del Kurdistan (KRG), attraverso l’oleodotto Iraq-Turchia.
La questione del petrolio curdo vedeva contrapposti il Kurdistan iracheno, il governo centrale iracheno e la Turchia da diversi anni.
A tale proposito, all’inizio di febbraio 2025, il parlamento federale iracheno ha approvato un emendamento al bilancio per consentire la ripresa delle esportazioni di greggio dal KRG al prezzo di 16 dollari USA/barile, cioè il doppio del prezzo precedente al fermo dell’esportazione. Il tubo, in funzione dal 1970, è lungo 970 km e può inviare fino a 1,6 milioni di barili di petrolio greggio al giorno.
L’impianto è stato soggetto a ripetuti sabotaggi dopo l’invasione dell’Iraq guidata dagli Stati Uniti nel 2003. Per questo la funzionalità dell’infrastruttura è stata diminuita a 450 kb/d (migliaia di barili al giorno) prima della sua chiusura nel 2023, dopo che la CPI (Corte Penale Internazionale) ha stabilito che la Turchia ha compiuto azioni di contrabbando violando l’accordo di esportazione per aver accettato consegne di greggio senza il consenso di Baghdad. Una questione che nel 2021 aveva visto coinvolta anche la raffineria italiana Saras della famiglia Moratti e il genero del premier turco Erdogan.
Attivare l’impianto porterebbe a diverse conseguenze: per gli USA, per l’Iran, per l’Iraq, per la Turchia, per la Siria e per i curdi. Sarebbe una boccata di ossigeno per le esangui casse curde e irachene, permettendo anche un distacco dalla deleteria influenza iraniana. E sarebbe, in generale, un ulteriore depotenziamento nell’area della Repubblica islamica. Sarebbe un buon incentivo alla Turchia a preservare i curdi e una base di stabilità per la nuova Siria. Non dimentichiamo che nel Kurdistan, sia siriano che iracheno, stanziano truppe USA a protezione degli alleati curdi.
Indirettamente vedrebbe incrementare anche l’influenza dei Paesi del Golfo, sponsor dell’equilibrio e dell’influenza sunnita nel Medio Oriente. Ma, più di tutti, dall’oleodotto trarrebbero vantaggio gli USA e l’Occidente tutto, per la triplice veste statunitense sul mercato degli idrocarburi: quella di consumatore, quella di produttore e quella di garante dell’energia per i Paesi occidentali.
La ripartenza porterebbe greggio a prezzo di saldo sul mercato e sotto controllo americano, con una riserva che i curdi stimano in 45 miliardi di barili a Kirkuk. Questo sarebbe inoltre un calmiere per i prezzi degli idrocarburi. In tutto questo, l’Europa, ininfluente, va al rimorchio degli USA, sta ancora discutendo come gestire le minacce sui dazi americani e non ha ancora capito cosa fare con la difesa europea.
Per quanto riguarda l’Italia, non vi è dubbio che l’oleodotto riattivato riporti il Mediterraneo, o Medio Oceano come qualcuno lo chiama, al centro dei rapporti di forza internazionali. Vediamo cosa farà il Governo.
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