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Home » Meeting di Rimini » MEETING/ Violante: nichilismo e bene comune, perché non conosciamo più i doveri?

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MEETING/ Violante: nichilismo e bene comune, perché non conosciamo più i doveri?

Luciano Violante
Pubblicato 19 Agosto 2019 - Aggiornato alle ore 07:38
Benedetto XVI nel 2008 (LaPresse)

Benedetto XVI nel 2008 (LaPresse)

I nostri diritti hanno sempre ragione? I nostri doveri hanno sempre torto? Per fare il bene comune, occorre ripensare diritti e doveri nel tempo del nichilismo

Papa Ratzinger nella prefazione ad un piccolo libro che raccoglie due scritti di don Giussani (Il senso di Dio e l’Uomo moderno, Bur, 1994) si sofferma sul senso di smarrimento nel mondo occidentale dopo il crollo del socialismo reale. Il marxismo, osserva Ratzinger, rappresentava una visione del mondo che costituiva in misura più o meno soddisfacente un’alternativa al nichilismo. Dopo il crollo, anche il marxismo si è rivelato una forma di nichilismo. E il nichilismo, continua quel Papa, oggi sembra inevitabile. 


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Il nichilismo contemporaneo esprime l’assenza assoluta di ontologie e quindi l’anomia, la liberazione integrale rispetto alle norme di comportamento e ai valori di riferimento; mette al bando i fatti e i valori. Il modello culturale libertario, insieme al consumismo di massa, produce un vuoto esistenziale che l’Occidente cerca di coprire o di mascherare attraverso la ricerca dell’emozione.


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Una prima conseguenza del primato dell’emozione è costituito dalla scomparsa della linea di confine che separa il desiderio dal diritto: ciò che è desiderabile, e quindi fonte di emozione, diventa esigibile nella forma del diritto soggettivo.

Una seconda conseguenza è la marginalizzazione non dell’intera categoria dei doveri, ma della categoria dei propri doveri che, come è noto, non danno alcuna emozione. Si è spietati nell’additare i doveri altrui, ma assai benevoli nei confronti dei doveri propri; irremovibili nel rivendicare diritti propri, intransigenti nel disconoscimento dei diritti altrui.


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L’egoismo trionfa. Dagli Stati Uniti all’Italia, l’indifferenza nei confronti del diritto alla vita dei migranti è il frutto di questa concezione “proprietaria” dell’esistenza, priva di doveri, vissuta solo secondo il proprio arbitrio e per il prevalente soddisfacimento di sé.

Tuttavia alcune manifestazioni del nichilismo contemporaneo sembrano contenere una clausola di dissolvenza, frutto della consapevolezza dell’insufficienza dell’emozione e della insuperabile necessità di dare un senso alla vita. Ad esempio, la passione per i selfies, a volte patologica, a me sembra il frutto del disperato tentativo di catturare un’emozione, di renderla stabile attraverso la fissità dell’immagine, trasformandola così in un fatto. C’è nichilismo nelle nostre società, ma c’è anche il tentativo di sfuggire alla sua spietata coerenza. È su questi tentativi che bisogna fa leva per riproporre il senso della vita.


MEETING SALUTE/ “Abbiate cura di ciò che vi è stato donato”


Il superamento del nichilismo è la questione umana dei nostri tempi. Distruzione dell’ambiente, devastanti ingiustizie sociali, nuovi schiavismi sono il frutto di una concezione nichilistica dell’esistenza. Ricorrere ad un insieme di tecniche è utile, ma non è sufficiente. Gli esperti ci spiegano che dobbiamo cambiare stili di vita. Ma come si fa, se non diamo un senso alla vita?

Primo passo è la ricollocazione dei nostri doveri nel nostro orizzonte. Questo richiamo può apparire un’insopportabile deriva moralistica se si rimane sul piano giuridico, dove diritti e doveri sono spesso rappresentati come una coppia inscindibile, apparendo banalmente gli uni il rovescio degli altri. In realtà c’è una differenza sostanziale tra le due categorie, che va al di là dei contenuti. I doveri sono espressione delle comunità mentre i diritti sono espressione degli individui. I doveri esprimono i legami che intercorrono tra le persone che fanno parte della stessa comunità e sono reciproci. I diritti esprimono l’esigenza di realizzazione della persona e sono privi di reciprocità. Il concetto di comunità incorpora il concetto di munus che significa vincolo, impegno; una comunità è fatta di persone che sono legate da vincoli reciproci. In questo la comunità si distingue dal gregge o dalla mandria. Comunità e persona, doveri e diritti, in un reciproco equilibrio, possono contribuire a ricostruire il concetto di bene comune e quindi a dare un senso alla vita.


LETTURE/ Ospedale degli Innocenti, la meravigliosa tenerezza della carità


Sul concetto di comunità gravano alcuni equivoci. Nella comune opinione pubblica si parte dalla famiglia e si giunge allo Stato e alla comunità internazionale. In questa visione, fatta di cerchi concentrici che si allargano, tende a prevalere il giuridicismo che vede le comunità come ordinamenti la cui effettività si stempera man mano che ci si allontana dal primo cerchio. La sostanza cambia se si rovescia la prospettiva. Nell’antichità era celebre un verso di Terenzio, commediografo romano: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, sono uomo, niente di umano ritengo mi sia estraneo. L’insieme degli esseri umani è la prima essenziale comunità che ci impegna al dovere fondamentale del rispetto. Le altre comunità, Stato, la città, il quartiere, la famiglia, aggiungono doveri specifici a quello fondamentale, di modo che il concetto di comunità non diventa escludente, ma inclusivo; non “io prima degli altri”, ma “io con gli altri” perché ciascuno di noi, prima di appartenere a una famiglia, a un quartiere, a una città, a uno Stato, appartiene all’umanità.


NOVARTIS/ Cura personalizzata, la sfida della ricerca che aiuta lo sviluppo del Paese


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L’articolo anticipa il tema che l’autore affronterà oggi al Meeting di Rimini, alle ore 17, parlando su “Diritti, doveri, bene comune”

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  • Tags: Don Luigi Giussani

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