Giorgia Meloni ha parlato in video ieri sera alla convention dei conservatori Usa difendendo le scelte di politica estera dell’Italia
Giorgia Meloni ha parlato in video ieri sera alla convention dei conservatori americani (Cpac) pochi giorni prima che Emmanuel Macron e Keir Starmer volino a Washington per i loro primi incontri con Donald Trump. Mini-summit richiesti da loro – con urgenza sgomenta e polemica – dopo che il vice-Trump, JD Vance, è volato nel cuore dell’Europa per esporre con il massimo del realismo la visione geopolitica della nuova amministrazione Usa.
La premier italiana ha già preso l’aereo per gli Usa sette settimane fa. È andata a visitare il presidente Usa eletto perché aveva un problema che l’Italia intera – in particolare quella d’opposizione progressista – le chiedeva a gran voce di risolvere in fretta: riportare a casa la giornalista Cecilia Sala, arrestata in Iran.
Una crisi che l’Italia da sola non avrebbe mai saputo sciogliere: né con lo sdegno mediatico e neppure con l’azione diplomatica (tanto meno quella della Ue). Trump – con l’intervento di Elon Musk, oggi membro della nuova amministrazione repubblicana – ha fatto immediatamente “cessare il fuoco” fra Teheran e Roma, negoziando direttamente uno scambio fra la giornalista italiana e un ingegnere iraniano arrestato in Italia. Un fatto, non un giudizio: che è piaciuto ad alcuni e non ad altri. Comunque un passaggio concreto e di per sé esplicativo della “dottrina Vance” elaborata un mese dopo a Monaco di Baviera e imperniata su una nuova “diplomazia transazionale”, che non piace quasi a nessuno in Europa.
Per questo, un minuto dopo lo sbarco a Roma della Sala, il fatto è stato subito ritorto in giudizio contro Meloni – colpevole di trumpismo “della prima ora” – da parte di tutti coloro che l’avrebbero invece accusata di essere una premier “unfit” ogni giorno in più che “la nostra Cecilia” fosse invece rimasta in carcere a Evin. Prigioniera – col rischio di diventare martire – degli aguzzini islamici, ma cittadina (si sarebbe detto “orgogliosa”) di un Paese “democratico, antifascista, anti-oscurantista, anti-patriarcale” eccetera. Con il passaporto di un’Europa ansiosa di autonomia dai “nuovi autocrati di Washington”, ma incapace di fronteggiare i ricatti minimi di una singola democratura come l’Iran (figurarsi un attacco missilistico dalla Russia).
Sono le stesse voci che oggi si sentono virtualmente a bordo dei voli di Stato in decollo da Parigi e Londra: voci auto-illuse che il presidente francese e il premier britannico vadano a “rimettere in riga” Trump, che vuole il cessate il fuoco subito fra Russia e Ucraina (dopo averlo già imposto fra Israele e Hamas). Vadano a fargli lezione di geopolitica “corretta”.
Sono le voci che – pur di contestare la “fine della guerra” concepita dalle amministrazioni Usa democratiche – non hanno timore di asserire una supposta necessità morale di continuare la guerra, assassina e distruttiva in Ucraina e sempre più gravemente dissanguante per 450 milioni di europei.
Sono le voci che guardano a Macron come leader di fatto della Ue, quando non lo è più nemmeno in Francia, battuto in tre round elettorali nazionali pochi mesi fa. Sono gli occhi che ignorano ciò che i media britannici riferiscono quotidianamente: la paralisi affannata del governo laburista in carica ad appena otto mesi dal voto. Sono quelli che – alla vigilia del voto tedesco – danno già per fatta a Berlino una coalizione di salvezza nazionale fra Cdu-Csu, Spd e verdi, da clonare ovunque “per difendere la democrazia in Europa”; anche se ciò che la Ue deve drammaticamente difendere, anzitutto in Germania, è il Pil (la “competitività” europea, direbbe Mario Draghi).
Sono le voci che invocano l’arsenale nucleare francese come cardine magico e subitaneo di un nuovo dispositivo militare di un’Europa fuoriuscita dalla Nato, al confine immediato con la maggior potenza nucleare del pianeta. La “force de frappe” francese fu effettivamente voluta negli anni 60 del secolo scorso dal generale de Gaulle in contrasto con la Nato; ma occorrerebbe ricordare anche il riflesso di una cocente frustrazione storica, perché la Francia non era affatto una potenza vincitrice (furono gli angloamericani a liberare il Paese dai nazisti).
E poi la Parigi militarista del generalissimo era una velleitaria potenza tardo-colonialista in Africa e Asia; sosteneva una prolungata occupazione militare della Germania (e quelle truppe erano pronte anche a reprimere in patria il Maggio 1968); e si opponeva a ogni allargamento dell’originaria Ue a 6, anzitutto alla Gran Bretagna.
Alla fine fu comunque de Gaulle a ritrovarsi in guerra civile con i suoi connazionali, venendone spedito a casa via referendum. Non sembra così diverso il Macron “Stranamore” che proclama un (supposto) stato di guerra “Europa contro tutti”. E ricorda invece parecchio i generali argentini che attaccarono le britanniche Falkland per superare una delle ricorrenti fasi interne insostenibili a Buenos Aires. Furono sonoramente sconfitti nelle acque di casa dalla flotta britannica, partita settemila miglia più a nord: naturalmente con l’appoggio dell’America, non dell’Europa (la Francia era anzi la fornitrice principale dell’aviazione militare argentina).
Questi fatti – quest’Italia, quest’America, quest’Europa – stanno dietro la scelta della premier italiana di accettare l’invito del Cpac. Come vincitrice democratica sia dell’ultimo voto italiano che di quello europeo, ha fin dal primo giorno fatto proprio un dato di realtà: l’Italia è da ottant’anni nella sfera d’influenza americana, assieme a tutta la Ue.
È parte di quell’Occidente reale che perfino il leader del Pci, Enrico Berlinguer, si riteneva fortunato di abitare durante la Guerra Fredda. E Meloni è sempre stata conseguente: anzitutto quando a Washington comandava un presidente “dem” e la Nato a trazione Usa ha deciso di sostenere l’Ucraina. Se oggi gli Usa – dopo un’elezione presidenziale – hanno cambiato idea su Ucraina e Nato la realtà impone a un Paese come l’Italia di prenderne atto: Meloni lo ha fatto anche ieri sera, certamente segnalando anche una consonanza politica con la nuova amministrazione americana.
Nulla vieta – a governi di altri Paesi o anche a un diverso governo italiano – di prendere atto in modo diverso di un cambiamento di scenario indubbiamente brusco, aprendo una fase dialettica con l’America di Trump, fino anche a separare i propri destini geopolitici. Però la civiltà democratica di cui Macron o Starmer si auto-propongono come alfieri, impone anzitutto a loro di rispondere sempre con chiarezza politica e legalità costituzionale ai loro parlamenti sovrani.
Le guerre non possono essere dichiarate per decreto, come prevede il comma 3 dell’articolo 49 della costituzione semipresidenzialista francese, divenuto il passpartout del macronismo autoritario. La Ue non può essere condizionata dalle scelte di un presidente francese finito in minoranza nella sua Assemblea nazionale. E, non da ultimo, la Gran Bretagna non può essere richiamata nella Ue a furor di tecnocrati di Bruxelles o di “dem” di Strasburgo, dopo esserne uscita appena nove anni fa sbattendo la porta a furor di referendum britannico.
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