Bamboccioni, “choosy”, troppo selettivi nella ricerca del primo impiego? Non solo. Quella che esce da uno studio della Fondazione Sussidiarietà su “Neolaureati e lavoro”, presentato ieri in Cattolica, in effetti è l’immagine di una realtà molto più articolata e complessa, che va oltre gli stereotipi. Una realtà, quella dei laureati alle prese con il primo impiego, tra Scilla e Cariddi, a metà tra grande intraprendenza (in genere manifestatasi già al tempo degli studi universitari) e scarsa propensione all’adattamento. Ma quanto contano in realtà questi fattori? Moltissimo secondo i promotori della ricerca. E così parrebbe dai risultati.
La ricerca, che è stata condotta su un campione di circa 6mila laureati di tutte le facoltà occupati in diversi settori a quattro anni dal diploma, contiene una grande quantità di dati che aiutano a mettere a fuoco un’immagine alquanto inedita. Dall’indagine risulta infatti che nel nostro Paese di giovani intraprendenti, disposti ad adattarsi, a fare stage o a recarsi all’estero per migliorare la propria posizione, ce ne sono eccome. Anche senza prendere in considerazione i cervelli in fuga, quelli contesi dalle migliori università straniere e dalle multinazionali, le percentuali sono abbastanza significative. Ovviamente con molte sfumature. Ad esempio, la propensione a “emigrare” cresce a seconda delle possibilità di carriera e di guadagno. Ed è con questo tipo di realtà che le istituzioni – le università e soprattutto il Parlamento – devono cominciare a confrontarsi. Diversamente, analisi e decisioni poggeranno su immagini deformate.
La presentazione dello studio è stata anche l’occasione per discutere del nuovo ruolo che l’Università è chiamata a svolgere in futuro. Gli atenei di domani, è stato detto, dovranno farsi carico di accompagnare i giovani laureati nel passaggio dall’università al mondo del lavoro.
Dovranno migliorare i servizi di orientamento e dovranno promuovere le opportunità all’estero per i più meritevoli, in particolare per quelli che non hanno disponibilità economiche. Non esistono tuttavia modelli da importare acriticamente (quelli in voga negli Stati Uniti, ad esempio).
Il rapporto prende in esame le iniziative di orientamento e di stage seguite dai laureati durante gli studi, i canali utilizzati per la ricerca del lavoro e in particolare quelli rivelatisi maggiormente efficaci. Uno dei focus è dedicato all’importanza delle reti sociali (familiari, parenti, amici, ecc.) nella ricerca di un’occupazione. Quelle che con disprezzo vengono comunemente bollate come “raccomandazioni”, e che in qualche caso possono effettivamente introdurre meccanismi distorsivi nel mercato del lavoro, figurano in realtà fra i canali più utilizzati dai neolaureati per trovare un impiego. Il “canale relazionale” è stato infatti utilizzato dal 24,3% degli intervistati (anche se i contatti diretti con il datore di lavoro sono considerati più efficaci).
In cima alla graduatoria di queste relazioni stanno i docenti universitari, all’ultimo posto i sacerdoti e i sindacalisti. D’altronde, se anche gli addetti alla selezione del personale cominciano a chiedere ai candidati la password per consultare i loro diari su internet, o l’accesso a profili di facebook, significa che qualcosa sta veramente cambiando anche da queste parti. Significa che alle relazioni si comincia a riconoscere un certo peso. Al convegno, infatti, è stato anche detto che la dimensione relazione non è mai del tutto eliminabile. Il motivo è presto detto: ogni rapporto di lavoro è anche un rapporto di fiducia e se c’è qualcuno che può testimoniare sulle qualità della persona da selezionare, tanto meglio. Chi ha detto che sostituire le relazioni personali con l’anonimato garantirebbe il meglio del mercato? Oggi sono rimasti in pochi a crederlo.
Sullo sfondo, i numeri della disoccupazione giovanile che descrivono una situazione drammatica: dal gennaio 2011 allo stesso mese del 2013 siamo passati dal 28% al 38%; in Lombardia, la locomotiva del Paese, siamo al 25%. “Sono dati disastrosi – commenta Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione –.” Ma se l’Italia sforna laureati eccellenti che vanno a lavorare all’estero vuol dire che la nostra formazione universitaria è di buona qualità. “Il motivo – spiega Vittadini – è che da noi è rimasto un residuo di ‘realismo’, che è un retaggio del cristianesimo. Il realismo, attraverso l’incontro del soggetto con un oggetto, favorisce una forma di conoscenza infinitamente più grande, ad esempio, dell’empirismo. E non elimina gli altri metodi di conoscenza: è evidente che non si può fare scienza senza laboratori. Una conoscenza che diventa creativa e rende capaci di adattarsi alle situazioni più complesse. Questo realismo ha sempre caratterizzato il nostro popolo. Gli italiani sono sempre andati all’estero. Per questo non c’è da avere paura per la fuga dei cervelli: dall’estero ricreeranno quella rete che aiuterà il nostro Paese a risollevarsi, come è già accaduto in passato”.
Prima di chiudere c’è ancora il tempo per proiettare i video di due giovani laureati che hanno deciso di recarsi all’estero per motivi di lavoro. Cosa li ha spinti a volare una a Shanghai, l’altro a Londra? Curiosità, desiderio di diventare protagonisti della propria vita, capacità di adattamento, voglia di imparare, scoperta di sé; tutte cose acquisite ai tempi dell’università e da allora mai sopite.