In Italia oltre 30mila minorenni vivono fuori dalla famiglia d'origine. Le strutture che li ospitano, le case famiglia, sono al centro di polemiche
Le “case-famiglia” in Italia sono da tempo al centro di un dibattito acceso: presentano aspetti positivi, ma anche criticità e non sono Poche le “ombre” che emergono anche attraverso scandali e casi limite. Per evitare giudizi che mettano in discussione il lavoro di tanti operatori generosi e competenti, travolgendo superficialmente un lavoro estremamente complesso e delicato, può essere utile sintetizzare alcuni punti di forza di queste strutture, per evidenziare meglio dove si annidano i rischi che aumentano dolore e sofferenza in persone già ferite da una serie di indubitabili fragilità.
Il funzionamento delle case-famiglia coinvolge vari attori: servizi sociali, tribunali, gestori, educatori, enti locali. Quando qualcosa va storto, diventa difficile attribuire responsabilità precise. Talvolta la “colpa” viene ricondotta genericamente a “le case-famiglia”, oscurando la complessità del sistema.
Certamente il livello di formazione umana e professionale, la sensibilità e la capacità di gestire conflitti, il saper mediare, mantenendo fermi i punti essenziali di un progetto educativo in una persona la cui vita affettiva ed emotiva è stata ferita richiede una gestione complessa e una responsabilità diffusa.
Le case-famiglia sono state inizialmente pensate per accogliere minori che per gravi ragioni non possono vivere con la loro famiglia d’origine: ci sono casi di violenza domestica, di grave trascuratezza, di inadeguatezza educativa, oppure ci sono famiglie che attraversano crisi prolungate di cui non si riesce a vedere la conclusione. Dovrebbero offrire un ambiente più familiare rispetto ai vecchi istituti come gli antichi orfanotrofi, che fortunatamente non esistono più.
Le case-famiglia puntano a ricreare un contesto “domestico”, in cui si possano creare dei progetti di accoglienza, con una loro valenza educativa, su misura per ogni ospite. In genere in ogni casa-famiglia dovrebbero esserci pochi bambini, tra 4 e 6, fino a un massimo di 8 ragazzi e degli adulti fortemente motivati a prendersi cura di loro, opportunamente formati e in grado di offrire loro cura, sostegno affettivo ed educazione personalizzata.
Per ogni ospite della casa-famiglia va fatto un vero e proprio progetto educativo personalizzato (PEI) per sostenere la sua crescita e, in tutti i casi in cui è possibile, si dovrebbe puntare alla ricongiunzione del ragazzo con la sua famiglia d’origine oppure preparare l’affidamento o l’autonomia del ragazzo.
Ci sono racconti di ragazzi che, grazie a una comunità, riescono a trovare stabilità, un progetto educativo e una transizione verso l’autonomia. Si tratta evidentemente di un’alternativa concreta per situazioni di emergenza sociale, dal momento che in molti casi le case-famiglia accolgono bambini provenienti da situazioni di vulnerabilità grave, per proteggerli da situazioni di abbandono, violenza o degrado familiare.
Spesso queste strutture rappresentano un’ancora di salvezza per minorenni che altrimenti rischierebbero di “perdersi”. Alcune case-famiglia in Italia offrono un rifugio e un reale punto di riferimento per minori migranti che arrivano da soli sul territorio nazionale, offrendo non solo un tetto, ma anche sostegno, istruzione e integrazione.
Ma le cose non vanno sempre così e le case-famiglia non sono esenti da problemi: spesso le strutture funzionano male e i rischi diventano molto seri. Le recenti polemiche ne sono un segnale.
Prima di tutto esiste il rischio che si tratti di una sorta di “istituzionalizzazione mascherata”, che di famiglia ha ben poco. In tali casi il termine “casa-famiglia” è di fatto usato in modo assolutamente improprio e dominano logiche burocratiche e impersonali, con una scarsa trasparenza, pesanti carenze organizzative e una gestione economica-finanziaria ambigua e discutibile.

Nonostante i costi oggettivi delle case-famiglia, non di rado chi le gestisce denuncia una retta non adeguata, per cui il personale non solo è quantitativamente insufficiente, ma può essere anche qualitativamente inadeguato sotto il profilo psicologico, educativo o sanitario per i minori.
C’è poi in alcuni casi il rischio di abusi e maltrattamenti, come mostra la complessa storia del Forteto, una comunità che per anni ha ospitato minori in difficoltà. L’esperienza del Forteto è emblematica ed è spesso citata come una sorta di ammonimento che coinvolge più istituzioni nella responsabilità dell’ascolto dei minori, della vigilanza attenta, degli interventi tempestivi. Ogni struttura va monitorata, sapendo bene che non tutte le case-famiglia sono adeguate a svolgere questo ruolo difficile e delicatissimo.
In Italia, come in altri Paesi, c’è un dibattito acceso sul fatto che dietro alcuni affidamenti e collocamenti in comunità possa nascondersi un “business”: cooperative, enti, operatori che gestiscono strutture, con risorse pubbliche o del terzo settore. Questo a volte genera conflitti di interesse, allungamenti della permanenza, incertezze sull’effettiva finalità di reinserimento. La “filiera dell’affidamento”, giustificata da necessità reali, rischia di diventare in alcuni casi un sistema di rendita, con poca trasparenza e scarso controllo.
C’è poi un altro problema che viene spesso sottovalutato: uscire dalla tutela offerta dalla casa-famiglia, anche per limiti d’età può essere molto difficile per i ragazzi. Anche quando la permanenza è gestita bene, il percorso post-18 anni può rivelare nuove forme di fragilità: i ragazzi che lasciano la casa-famiglia al raggiungimento della maggiore età rischiano solitudine, mancanza di risorse, scarso supporto per l’autonomia.
In altre parole: le criticità non dipendono sempre o solo dalla struttura in sé, ma dall’insieme delle risorse, dalla qualità della gestione, dai controlli, dal contesto. E quando questi mancano, le conseguenze per i minori possono essere molto gravi.
Anche il recente caso dei bambini della famiglia nel bosco ha riacceso polemiche, dubbi ed interrogativi, che fortunatamente hanno scosso l’opinione pubblica, obbligando ognuno di noi a riflettere sulla responsabilità sociale che la tutela del bene comune comporta.
Per esempio: quando una forma di vita alternativa diventa pericolosa per minori? come bilanciare diritto all’educazione, autonomia genitoriale e dovere dello Stato di garantire protezione e sviluppo sociale a bambini e ragazzi? quanto può essere davvero “familiare” un ambiente regolamentato come una comunità?
In conclusione: le “case-famiglia” in Italia restano, in teoria e nelle migliori pratiche, uno strumento essenziale di tutela, salvaguardia, e possibilità per chi non può vivere con la famiglia d’origine. Offrono una reale chance di stabilità, affetto, cura. Ma, come mostrano le polemiche, i casi di abuso e le difficoltà strutturali, non sono esenti da rischi profondi. Il loro valore e la loro utilità dipendono moltissimo da come sono gestite, da quanto garantiscono trasparenza, risorse, qualità educativa e psicologica, da quanto sono capaci di restituire ai minori la dignità di una vita serena, e non quella di un “mini-istituto camuffato”.
In un momento di crisi sociale ed economica, con famiglie fragili, disuguaglianze, nuove povertà, le case-famiglia possono rappresentare un’importante rete di protezione. Ma per evitarne gli abusi, occorre un sistema di controlli seri, politica sociale consapevole, formazione professionale degli operatori, trasparenza pubblica e ascolto continuo.
È necessario un dibattito pubblico consapevole: le polemiche le paure, le generalizzazioni servono poco. È meglio parlare di criteri di qualità, di selezione del personale, di verifica dei risultati, di diritti, di fallimenti e di successi documentati. Perché ognuno si assuma la sua responsabilità nel proprio ambito professionale e con la propria sensibilità etica e sociale.
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