Arrivò a farsi, per sua stessa ammissione, una dose di eroina o di cocaina ogni quindici minuti, così per almeno due anni. Poi venne accusato dalla figlia maggiore di aver abusato di lei per anni. Droga, incesto, rock’n’roll. Eppure era cominciato tutto con un sogno, quello della California, e un fiore tra i capelli, il passaporto per arrivare a San Francisco, dove avresti incontrato solo “gente gentile”.
Bruce Springsteen diceva che se un sogno non diventa realtà, è una maledizione. Così è stato per molti il sogno di pace, amore, buone vibrazioni, espansione delle coscienze, pacifismo, amore libero degli anni 60. Quel sogno che sfociò nella Summer of Love, l’estate dell’amore, 50 anni fa esatti. Un’epoca idilliaca, secondo certe testimonianze (anche se c’è chi dice che “se ricordi gli anni 60, vuol dire che non c’eri”…) e le leggende, ma finita nella droga, nelle morti, nella solitudine nel giro di pochissimo tempo.
Quando chiesi a Chrissie Hynde, leader dei Pretenders, durante una intervista, qual era secondo lei, trent’anni dopo (era il 1999, nda) l’eredità del festival di Woodstock, quei tre giorni di “pace & amore” che segnarono il punto più alto per numero di persone e impatto culturale e politico dell’estate dell’amore, mi rispose semplicemente: “Troppi morti per droga”. Due mesi dopo Woodstock sarebbe arrivata la strage di Bel Air, a opera della comunità di hippie “deviata” (per troppa droga) di Charles Manson, e altri due mesi dopo la morte di uno spettatore ucciso a coltellate durante il festival di Altamont organizzato dai Rolling Stones per tutti gli hippie della California.
Bastarono due anni per distruggere tutto. Anche quella canzone che, meglio di tutte, aveva descritto quel sogno, California Dreamin’: “All the leaves are brown (all the leaves are brown) And the sky is grey (and the sky is grey) I’ve been for a walk (I’ve been for a walk) On a winter’s day (on a winter’s day) I’d be safe and warm (I’d be safe and warm) If I was in L.A. (if I was in L.A.) California dreamin’ (California dreamin’) On such a winter’s day“. Non era solo il desiderio di un clima più mite rispetto a quello gelido di New York, ma il risvegliarsi di quel desiderio che ha sempre spinto gli americani a ovest, verso la terra promessa, quella del “milk and honey”, la terra del latte e del mile: la California. A scriverla fu John Phillips, fondatore dei Mamas and Papas e loro principale compositore.
Una generazione aveva preso sul serio quelle parole e credendo di trovare la terra promessa lo aveva seguito fino alle strade di San Francisco e Los Angeles e di quell’estate dell’amore. Phillips avrebbe scritto anche l’inno più romantico e spontaneo di quella generazione, dandolo da incidere all’amico Scott McKenzie: “If you’re going to San Francisco Be sure to wear some flowers in your hair If you’re going to San Francisco You’re gonna meet some gentle people there For those who come to San Francisco Summertime will be a love-in there In the streets of San Francisco Gentle people with flowers in their hair“. Non era più un sogno, era realtà, o almeno così appariva: “All across the nation Such a strange vibration People in motion There’s a whole generation With a new explanation“.
John Phillips è quello che sarebbe finito a iniettarsi una dose di eroina ogni quindici minuti. Era un autore straordinario, qualunque cosa scrivesse diventava una hit immediatamente (tra le altre già citate, anche Me and My Uncle diventata un cavallo di battaglia nei concerti dei Grateful Dead), ma non solo. Fu lui, sostanzialmente, a mettere in piedi il primo raduno ufficiale di quel nuovo popolo e dei suoi cantanti, il festival pop di Monterey, che avrebbe mostrato agli Usa che era nata una nazione nella nazione e da cui sarebbero balzati alle stelle nomi fino allora quasi sconosciuti, come Janis Joplin e Jimi Hendrix. Lui, oltre a scrivere canzoni, aveva una visione, e la stava pianificando in modo straordinario: era il leader mai ufficializzato di quella generazione.
Viveva nel Topanga Canyon, la mecca in quel periodo delle star della musica e di Hollywood: a casa sua potevi trovare Jack Nicholson, Warren Beatty e il regista Roman Polanski, la cui moglie, incinta, fu tra le vittime della gang di Manson. Quel Topanga Canyon che avrebbe descritto e cantato meravigliosamente nella canzone omonima del suo unico vero album solista, uscito nel 1970 dopo la fine dei Mamas and Papas, intitolato con il suo nome e soprannominato “The Wolf King of L.A.”, il re lupo di Los Angeles. Un disco incantato, fatto di tenui ballate folk sostenute da una pedal steel, un pianoforte, molte chitarre acustiche, arrangiamenti orchestrali mai straripanti, un coro che esaltava le melodie. Era il ritratto di un momento storico ancora infarcito di sogni e illusioni (Malibu People, April Anne, Down the Beach), ed era un disco bellissimo con la voce delicata ed elegante di Phillips a tenere tutto insieme. Ma quel soprannome, “re lupo”, annunciava profeticamente l’arrivo di tempi oscuri.
L’uso e abuso di cocaina lo portarono a diradare le incisioni, mentre si occupava anche di colonne sonore cinematografiche, ad esempio quella del debutto sul grande schermo di David Bowie, L’uomo che cadde sulla terra. Tra un film e l’altro incideva le sue canzoni, raccolte nel bel disco postumo “Jack o’ Diamond” contenente canzoni registrate tra il 1973 e il 1974. La visione musicale si era spostata verso la tendenza dell’epoca, un jazz rock di straordinaria fattura. Nel disco infatti lo accompagnano i membri dei L.A. Express, esperti jazzisti che lavorarono anche con Joni Mitchell. Il risultato è riuscitissimo, una esaltante cavalcata notturna, fatta di sassofoni, chitarre elettriche, drumming raffinato. Non è più il tempo del Topanga Canyon, il re lupo ha compiuto la trasformazione e nel brano Black Broadway sembra essere la fotocopia del Lou Reed più metropolitano e inquietante, anche lui avviato verso un “wild side”, mentre Devil’s on the Loose è già dal titolo un programma (il diavolo si è scatenato). Nel disco, due versioni di Me and my Uncle, che lui aveva intitolato Jack o’ Diamond, incalzante ballata boogie da deserto del Joshua Tree.
Nonostante la vita disordinata, i continui matrimoni, quattro figlie, la droga, Phillips aveva ancora da dare, musicalmente. Per i Beach Boys scrisse insieme a Lou Adler Kokomo, che volò al primo posto in classifica. E nonostante tutto, le star del rock continuavano ad ammirarlo. Fra questi Mick Jagger che si sforzò di fargli incidere un nuovo disco solista, mai terminato, uscito postumo. In “Pay Pack and Follow”, registrato tra il 1973 e il 1976, suonato quasi tutti gli Stones, da Keith Richards a Mick Taylor a Ron Wood. Phillips si aggiorna ancora, e il disco è in puro “Rolling Stones style”, con la splendida Oh Virginia, un duetto country emozionante con Mick Jagger, She Was Just 14 (che anni dopo, quando la figlia Mackenzie lo avrebbe accusato di incesto, avrebbe assunto connotati inquietanti: dedicata a lei, sin dal titolo era ambigua e conteneva liriche come “She ‘did it’ in a limousine”), un brano che musicalmente sembra uscire dalla cantina dove fu registrato “Exile on Main Street”, con Keith Richards e Phillips che evidentemente avevano fatto il pieno prima di registrare. E un pezzo, la caraibica e divertente Zulu Warrior scritto con Jagger.
A testimoniare le mille ombre che si proiettano sull’ormai ex re lupo di Los Angeles il disco si conclude con la profetica 2001, l’anno della sua morte, in cui ci si immagina la colossale festa di fine millennio, il capodanno del 1999. Non sapeva che in quello stesso anno sarebbe invece morto.
Anche queste registrazioni sarebbero uscite postume. Dopo un arresto per droga, in cui se la cavò facendo insieme alla figlia Mackenzie, star della televisione e tossicomane anche lei, una campagna contro gli stupefacenti, per il resto della vita si sarebbe limitato a fare concerti con reunion puramente nostalgiche dei Mamas and Papas (mancava soprattutto Mama Cass, lei la regina del Topanga Canyon, lui il re, morta soffocata da un boccone di sandwich nel 1974), scrivere l’autobiografia, cadere e uscire da alcol e droga. Fino alla morte nel 2001.
Ma Phillips non trovò pace neanche da morto. Nel 2008 la figlia Mackenzie (una carriera di attrice di successo distrutta dalla droga) scrisse una autobiografia devastante nei suoi confronti in cui diceva di essere stata l’amante del padre per circa dieci anni, inizialmente stuprata da lui a 11 anni dopo averla stordita con l’eroina. Nessuna delle sue altre tre figlie e le sue tre mogli vollero credere a questa storia, che in ogni caso portò a toccare il fondo di un marciume che nessuno, ai tempi della Summer of Love, avrebbe ma previsto e creduto possibile. Di Phillips, oggi, restano solo una manciata di canzoni memorabili e niente altro, cancellato senza sapere se fosse innocente o no dell’incesto dagli annali del rock.
50 anni dopo nessuno porta più fiori nei capelli, a sognare la California sono rimasti i turisti e Monterey è una delle tante cittadine per ricchi pensionati.
Perché se un sogno non si realizza, diventa una maledizione. Da qualche parte, sulla spiaggia di Malibu, si aggira ancora un lupo, quello di Los Angeles, in cerca di quel sogno.