ADRIANO CELENTANO COMPIE 80 ANNI. 80 anni del Molleggiato fanno impressione. Non solo per come li porta bene senza essersi ridotto a sembrare il Big Jim di Barbie con gli occhi a mandorla, come certi celebri ottantenni ritoccati. No, Adriano Celentano che domani ne compie appunto 80, è se stesso. Possiamo dirlo? E’ ancora un figo, come è stato per tutta la vita. Anzi, come Sean Connery invecchiando è anche migliorato.
Ma 80 anni del Molleggiato fanno impressione anche per la valenza storica e culturale che portano con loro. Da quando salì sul palco del Palazzo del Ghiaccio di via Giovanni Battista Piranesi a Milano quel 18 maggio 1957, niente nella musica italiana sarebbe più stata la stessa. A differenza di quanto raccontano le leggende metropolitane, sul palco con lui quel giorno non c’erano gli amici Giorgio Gaber e Luigi Tenco (che solo in seguito sarebbero entrati a far parte dei suoi Rock Boys). C’era invece a suonare con lui Enzo Jannacci che così ricordò l’evento: “Non ci si rendeva bene conto di quanto stessimo facendo. Noi avevamo soltanto voglia di suonare e di divertirci. In realtà chi veramente ci guadagnò da quel giorno fu Adriano Celentano che da allora divenne il Molleggiato per antonomasia“. Fu infatti un giornalista a battezzare così quel ragazzone di origine pugliese trapiantato nel capoluogo lombardo nell’allora periferica via Gluck, cresciuto a Jerry Lee Lewis e Elvis Presley, perché quel giorno si doveva esibire anche un certo Torquato il Molleggiato (diventato poi noto come Jack La Cayenne) e vedendo come si muoveva Celentano, pensò essere lui il molleggiato.
Oltre 10mila ragazzi quando la capienza era di soli 5mila, quel giorno distrusse sedie e finestre, devastando il palazzotto, quasi potessero finalmente grazie al rock’n’roll lasciar uscire fuori tutta la repressione morale inculcata da secoli. Il bello fu che quel festival era organizzato dalla Democrazia Cristiana: un clamoroso autogol. In compenso a sinistra – anche se forse allora non aveva ancora compiuto del tutto la transumanza dalla destra di origine – Giorgio Bocca stroncava Celentano e l’evento sul Corriere della Sera criticando in modo sprezzante la voglia di importare “mode” dall’estero (ancora negli anni 80 lo avrebbe definito “un cretino di talento“). La sinistra italiana avrebbe sempre trattato la musica rock come “espressione del capitalismo e dell’imperialismo americano” facendoci perdere decenni di grande musica. Quel giorno comunque finiva finalmente il dopoguerra in bianco e nero: era nato il technicolor di una nuova musica e di nove speranze.
Pur non limitandosi nel prosieguo della carriera a quel solo genere, Celentano, con lo stesso impatto che ebbe in America il suo idolo Elvis, ha accompagnato l’Italia che stava cambiando, rappresentandone il nuovo entusiasmo, la voglia di superare certe barriere sociali e culturali, il desiderio di divertirsi, di uscire dalla condanna di una vita pensata da altri solo per essere sfruttata, con quella voce sempre in bilico tra malinconia ed esuberanza. La sua canzone più bella? E chi può dirlo, tra interpretazioni come Azzurro o Una carezza in un pugno o Il ragazzo della via Gluck e tante altre.
Una carriera musicale già a fine anni 70 malamente rovinata da lui stesso, che preferì il cinema, perdendo il contatto con la gente e anche i collaboratori geniali, continuando sì a fare dischi, ma uno più brutto dell’altro dove solo raramente spuntava qualche bel pezzo. Dischi fatti solo per timbrare il cartellino e dove appare evidente che anche lui non ha più voglia di farne, lasciando tutto in mano a gente che lo obbliga a seguire le mode del momento, invece di anticiparle o stravolgerle come aveva sempre fatto. Eppure anche questi dischi sono sempre schizzati in cima alle classifiche, anche l’ultimo improponibile duetto con Mina, segno che la gente, al contrario, non lo ha mai abbandonato. E un motivo ci sarà.
Ma ci fu un momento in cui Celentano dimostrò di essere ancora il più grande di tutti, e fu probabilmente anche il momento in cui toccò il picco più alto della sua genialità. Un brano nato casualmente, mentre con parole inventate al momento faceva delle prove in studio. Una canzone che, quando uscì, non ebbe neanche successo in Italia, mentre per la prima volta lo portava in classifica negli Stati Uniti e in mezzo mondo. Ci sarebbe voluta una esibizione in televisione così straordinariamente trascinante, due anni dopo, per portarla in cima alla top ten. Era di nuovo il Moleggiato, ma ancora di più.
E, come successo raramente, fu anche l’autore sia di musica che di testo, anche se il testo in realtà non esiste. Per essere più un interprete che un autore, Celentano quel giorno mostrò una tale padronanza e un tale gusto musicale, da renderla per tutti questi motivi la sua più grande incisione, l’unica che ancora oggi, più di quarant’anni dopo, suona fresca ed eccitante come uscita ieri.
Celentano, anche quando esordiva con canzoni di rocker americani, non aveva mai saputo l’inglese, storpiandolo a modo suo. Quel giorno esagerò in maniera incontenibile, con una sorta di gramelot, un inglese maccheronico come si usa fare quando si prova una canzone di cui non si ha ancora il testo. Ma quel linguaggio senza il minimo significato (a parte l’inciso di “oi rait” che è la pronuncia di “all right”) rimase il “testo” del brano, con un titolo indecifrabile: Prisencolinensinainciusol. Anni dopo spiegò che aveva voluto fare una canzone che trattasse del problema dell’incomunibilità fra la gente, un problema che lui aveva avvertito con decenni di anticipo, oggi più attuale che mai: la mancanza di dialogo (“Nel mondo oggi non ci capiamo più non c’è il dialogo è rimasto solo lo sguardo un po’ triste della gente“).
Con un groove irresistibile che si ripete dall’inizio alla fine, un loop esattamente come si comincerà a fare 10 anni dopo nella musica hip-hop, Celentano si lascia andare alla sua interpretazione più selvaggia, originale, eccitante e incalzante. Se in America gruppi come i Funkadelic, Sly and the Family Stone e i Bar Keys approcciavano già questi ritmi, in Italia e in Europa erano ancora sconosciuti. Ma Celentano aveva sempre avuto, almeno fino ad allora, le orecchie spalancate a quanto arrivava dall’America prima di tutti. In realtà non si tratta di un vero rap come lui stesso avrebbe detto anni dopo, quando nel 1994 reincidendola con il pessimo titolo di “Il seme del rap”, si vantò di “aver inventato quel genere musicale” (approfittando alla sua maniera per deridere i ragazzotti italiani che pretendevano e ancora lo fanno di fare quella musica, “quattro mocciosi che rompono i coglioni col rap“).
Qualunque cosa fosse quel brano misterioso, in modo profeticamente inquietante al Midem di Cannes (la fiera europea della musica) Celentano si presentò con felpa e cappuccio calato sulla testa, esattamente come un rapper americano di oggi. Si sarebbe dovuto aspettare due anni, il 1974, perché dopo una sua memorabile apparizione in tv, Prisencolinensinainciusol arrivasse in cima anche alle nostre classifiche.
Se Celentano da allora non ha più stupito musicalmente, ha continuato a farlo con altre modalità, ad esempio i suoi bizzarri spettacoli televisivi in cui ha sconvolto le regole stesse della televisione (ricordate i famosi silenzi che duravano anche dei minuti?) o lanciato campagne sociali. Come a Fantastico 8 nel 1987 quando alla vigilia del referendum sulla caccia scrisse lo slogan “La caccia e contro l’amore” con errore di grammatica compreso. D’altronde lui è sempre stato “il re degli ignoranti”.
Lo ha fatto dichiarando senza vergogna la sua fede cattolica in tante occasioni (con un matrimonio unico nel mondo dello spettacolo, che dura da 53 anni), sin da quando nel 1965 incise la celeberrima Stand by Me in versione italiana con il titolo di Pregherò fino all’auto esaltazione paranoica e apocalittica del disastroso film Joan Lui e in queste ultime settimane intervenendo sulla polemica della traduzione sbagliata del Padre Nostro (“Ha ragione il Papa quando dice che Dio non è un tentatore. La traduzione giusta è quella dei francesi: ‘Non lasciarci cadere nella tentazione’ che vorrebbe dire ‘Gesù se sto per affondare salvami‘”).
Ma il momento probabilmente che resterà per sempre è stata l’apparizione in televisione di quel vecchio gruppo di amici che aveva cominciato insieme alla fine degli anni 50 senza prevedere dove la vita li avrebbe portati, con la sola voglia di divertirsi e di strafare, e con un cuore grande così che li ha condotti a interpretare e rappresentare il cuore di noi tutti. Anzi, aiutandoci a prenderne coscienza.
Era il 2001 e andava in onda la prima puntata del suo nuovo programma televisivo, “125 milioni di cazzate”. A un certo punto comparvero sul palco Giorgio Gaber, Enzo Jannacci e Dario Fo, invecchiati e anche conciati (Gaber sarebbe morto poco dopo e i segni della sua malattia si vedevano tutti) con Celentano in sedia a rotelle con una gamba ingessata. Poteva essere una situazione patetica, una rimpatriata nostalgica all’ospizio, fu invece la testimonianza che fra loro tutto era rimasto uguale. Quella allegra amicizia fra i quattro apparve tutta intatta. Cantarono Ho visto un re, la canzone degli ultimi, e fu magia e furono lacrime. Quattro moschettieri che non solo avevano reso le nostre vite più belle, ma ci avevano anche fatto capire che c’era qualcosa oltre la nostra vita stessa, che non eravamo soli, anche se perdenti.
Oggi di quel gruppo di amici che ha cambiato non solo la musica ma anche la storia italiana, è rimasto solo lui, il re degli ignoranti, il molleggiato, il ragazzo della via Gluck: a 80 anni è più giovane che mai.