È il 1975 quando i negozi di dischi si apprestano a ricevere uno dei dischi più assurdi e misteriosi del tempo (quel tempo; col tempo, ci saremmo abituati a ben altre assurdità). Si intitola “Metal Machine Music”, è un doppio album e ne è l’autore una delle figure più controverse della storia del rock, ma certamente una delle più geniali: Lou Reed.
L’ex Velvet Underground che ha lanciato da qualche anno una brillante carriera solista con dischi di spessore lirico e musicale straordinario, come “Transformer” e “Berlin” è personaggio che vive nella penombra dei bassifondi newyorchesi, tra droga e travestiti. È il maledetto del rock per eccellenza, ma anche uno dei più brillanti cantori del lato oscuro dell’animo umano, della sua miseria e della sua perdizione senza redenzione.
Da qualche tempo la sua casa discografica insiste perché pubblichi musica abbastanza commerciale per sfondare in classifica. Lui risponde con un doppio vinile di laceranti feedback, di rumorismo sonico, di musica strafottente e cacofonica senza parole. Un disastro commerciale totale che però risulterà negli anni influente per un sacco di band di rock alternativo e che getta i semi per una collaborazione che si compirà più di trent’anni dopo.
Sono i primissimi anni Ottanta, invece, quando a San Francisco nasce una band che fa del nuovo verbo metal, l’esposizione della musica rock ai suoi livelli più distorti e rumoristi, il proprio verbo musicale, ma anche il nome. Un nome che qualcuno dei membri è andato forse a scoprire in quel disco di Lou Reed di qualche anno prima. Si chiamano Metallica e diventeranno in breve tempo uno dei gruppi più amati al mondo, pionieri del thrash, della musica più aggressiva che si possa immaginare.
Inevitabile che Lou Reed e i Metallica finiscano per incrociare le proprie strade. Accade una prima volta nell’ottobre del 2009, quando Reed e i Metallica si esibiscono insieme, un’accoppiata che appare a tutti i presenti clamorosa, sul palco del Madison Square Garden di New York in occasione del 25esimo anniversario della Rock’n’Roll Hall of Fame. Due anni dopo quell’apparizione estemporanea diventa una collaborazione su disco. I Metallica, gruppo accompagnatore del poeta maledetto per un doppio cd (sarebbe a dire un quadruplo vinile…) uscito proprio il giorno di Halloween.
Che cos’è dunque “Lulu”? Il disco è ispirata alla celebre Lulu, la femme fatale creata dallo scrittore tedesco Frank Wedekind ai primi del Novecento e che negli anni avrebbe ispirato film (Die Büchse der Pandora del 1928), opere (Il vaso di Pandora), un musical di Broadway (del 2006) e soprattutto una nuova opera teatrale di Robert Wilson.
Lulu è una figura tragica, una ballerina sacrificata sull’altare delle passioni e delle nefandezze umane, fino a cadere nelle mani di una sorta di Jack lo squartatore che la fa a pezzi. Con Wilson Lou Reed aveva già collaborato in passato e dunque è arrivato il momento per Lulu di scendere anche nel campo della musica rock. Per Reed, un argomento letterario con cui andare a nozze: d’altro canto proprio lui, ai tempi antichi dei Velvet Underground, aveva scritto un brano che si intitolava proprio Femme fatale, e anche un disco, il capolavoro “Berlin” ambientato in una Berlino decadente e omicida.
Niente di più facile, dunque, che cantare una volta ancora di perdizione e di morte. Peraltro, Lou Reed è da tempo che si cimenta con testi letterari, basti pensare alla sua messa in musica del Corvo di Edgar Allan Poe. La novità, questa volta, è l’accompagnamento di una band apparentemente agli antipodi da lui, i Metallica. E come funziona questa accoppiata? Il pubblico e la critica sono divisi: i fan dei Metallica dicono che la loro band non suona come sono abituati a sentirla suonare, i fan di Lou Reed dicono che il loro cantante è fuori luogo, che la sua voce e la musica sembrano copia e incollate una sull’altra senza una ragione. Più che altro si è assistito a un processo alle intenzioni, parlando di questo disco, piuttosto che a una vera disanima di ciò che esso contiene, musicalmente e liricamente. Il miglior commento al proposito lo ha rilasciato lo stesso Reed: “Una collaborazione insolita sarebbe stata tra Metallica e Cher. Questa è una collaborazione ovvia”.
In realtà, gran parte del disco funziona egregiamente, e parecchio. È un disco che ti spara in faccia, non è politicamente corretto come mai la musica rock dovrebbe essere., e richiede molta attenzione. In una parola, non è rock per teenager, ma è rock, lacerante e inquisitorio, disturbante e affascinante. Non chiede di piacere, chiede di esserci. E tanto deve bastare. È un disco, questo, da prendere con le pinze, da digerire con estrema calma, da inseguire e da catturare, lontano milioni di miglia da quanto siamo abituati ad ascoltare. A tratti sembra fastidioso, la voce di Lou Reed appare malevole e anche stonata. Ma con i versi che sta cantando, appare sensato. Si tratta di alcune delle dichiarazioni più dolorose, a tratti indecenti, ascoltate in un disco rock.
La Parigi dei bassifondi dei primi del Novecento, la Berlino dell’orrore nazista: non c’è salvezza in queste canzoni, è il disfacimento totale, è “Salò, o le 120 giornate di Sodoma” del rock. Musicalmente, è un viaggio trascendentale che cerca disperatamente una via d’uscita, una speranza apparentemente impossibile. Arriverà, ma bisognerà attendere l’ultima traccia, i venti minuti pazzeschi e accecanti nella loro bellezza di Junior Dad. Prima, Lou Reed e i Metallica si sfidano nell’iniziale Brandenburg Gate, (“I would cut my legs and tits off/When I think of Boris Karloff and Kinski” canta Reed, con James Hetfield dei Metallica che risponde sguaiato “Small town girl!”) un pezzo che comincia acustico per debordare in un rock’n’roll serrato e granitico.
Un riff tipicamente industriale squarcia invece Mistress Dread con la voce di Reed che sembra provenire da altrove, sperdutamente alla ricerca di un significato a quanto sta accadendo intorno a lui; Iced Honey è la Sweet Jane del Terzo Millennio; Cheat on Me sono undici minuti di spoken word. Sotto di lui, i Metallica si trasformano in rumoristi rock straordinari: l’ambientazione è quella di un locale mai esistito, tra Montmartre e il bunker di Hitler a Berlino.
Frustration che viaggia a lunghezze anche qui superiori alla norma, quasi nove minuti, è costruita su una classica sequenza di accordi tipica dei Metallica ed è un bel sentire. Little Dog, anche qui otto minuti di durata, si apre acustica: la voce, invecchiata, invecchiatissima di Lou Reed, sembra quella dell’ultimo Johnny Cash, morente.
Il viaggio si conclude in una sorta di possibile redenzione, che forse per Lou Reed è più quella del sonno eterno della morte che una redenzione possibile qui, ora, sulla terra. Sono i venti minuti epici, il picco di tutto il disco, di Junior Dad. Qualcuno ha detto che in studio, mentre la registravano, James Hetfield and Kirk Hammett dei Metallica siano scoppiati in lacrime. Entrambi avevano da poco perso il padre.
Ed è proprio un figlio che si rivolge a un padre perduto, ma bramato, il protagonista di questo pezzo che Reed in passato aveva già presentato dal vivo in forma sperimentale con l’eclettico polistrumentista John Zorn e la moglie Laurie Anderson.
Qui, siamo su dimensioni soniche ben diverse. Mentre Lou Reed mormoreggia il suono di violoncelli stende un tappeto su cui entrano i Metallica in versione che sembrano i New Order. Si dispiega un cantato dolcissimo e consolatorio, dopo gli incubi precedenti, e chi pensa che ci sarà una esplosione rock nel finale, dovrà ricredersi. Lou Reed e i Metallica escono di scena: per i conclusivi otto minuti del lunghissimo brano rimangono solo gli archi, dei violoncelli di una bellezza spropositata, che accompagnano l’ascoltatore verso un abbraccio consolatorio. C’è redenzione, c’è salvezza alla fine dell’incubo? “Pull me up/ Would you be my lord and saviour?”, dice Lou Reed.