“Platone immaginava gente che viveva in una caverna e si convinceva che quella era la realtà. Una volta usciti, preferivano rientrare perché quello che trovavano fuori non gli piaceva”. Come un moderno Pollicino, Enrico Ruggeri, qualche settimana prima che uscisse il suo nuovo album “La caverna di Platone”, ha disseminato di indizi per far capire al suo pubblico il senso dell’ultimo lavoro discografico, proprio come il personaggio della fiaba faceva con i sassolini lungo la strada per tornare a casa.
E non sorprende che si affidi ad aneddoti filosofici: infatti da qualche tempo (con qualche grattacapo) per le critiche sulle decisioni governative nell’affrontare la pandemia, intendendole come limite alla libertà personale (senza però farsi abbindolare dalla deriva no-vax), Ruggeri, dopo anni di successi nel songbook cantautoriale più popolare, tra partecipazioni festivaliere sanremesi e collaborazioni con i più prestigiosi colleghi, ha deciso di dismettere una certa immagine “inclusiva” (come dicono quelli “bravi”), accentuando la sua matrice culturale anarchica decisamente allergica al politicamente corretto della sinistra “liberal”. Infatti in tutti i suoi interventi pubblici recenti, con eleganza lessicale e sempre in modo pungente ed ironico, testimonia una disomogeneità da artista verso il pensiero unico che ha segnato e tuttora segna il mondo della comunicazione culturale italiana.
Classe 1957, milanese “verace”, Ruggeri è artista a tutto tondo: autore e interprete delle più belle canzoni del pop italico, mai banale nei testi spesso molto personali (abile a costruire liriche in un italiano impeccabile, studiato con profitto al liceo classico milanese “Berchet”) è anche apprezzato romanziere.
Dotato di una spiccata creatività musicale i suoi i titoli sono rimasti nell’immaginario collettivo a partire dai primi anni ’80, dopo l’esordio con “Contessa” nel gruppo punk-rock dei Decibel, continuando poi la carriera da solista con un timbro più da chansonnier< nel prosieguo del decennio e per buona parte degli anni ’90, titoli come “Polvere”, “Mistero”, “Peter Pan”, “Nuovo swing”, regalando tra l’altro perle poetiche come “Il mare d’inverno” a Loredana Bertè e “Quello che le donne non dicono” a Fiorella Mannoia.
In questo ultimo decennio, in linea con i colleghi di lungo corso, la vena compositiva si è un po’ inaridita e la voce si è sempre più impastata (forse il desiderio recondito di assomigliare a uno dei suoi miti, Tom Waits), ha mantenuto costante le sue uscite discografiche con intervalli regolari, è impegnato tra i maggiori organizzatori della Nazionale Cantanti in campagne di raccolta fondi per il volontariato sociale ed è coinvolto in una presenza televisiva improntata alla divulgazione musicale con buoni risultati di critica e pubblico.
Tra i più recenti lavori di Ruggeri consigliamo vivamente l’ascolto dell’album “L’anticristo”, anno 2019, nel segno della ricomposizione con I Decibel: un lavoro denso e molto accattivante, piuttosto provocatorio, in ogni suo album, comunque, si possono trovare brani che lasciano il segno.
È evidente che la riesumazione del suo primo gruppo punk ha dato a Ruggeri una nuova verve nell’ispirazione artistica, e lo conferma lui stesso: “Si, quella è stata una svolta. Gli album dei quali vado più fiero sono quelli dal 2017 in avanti, quindi dalla reunion con i Decibel, perché ho ritrovato la voglia di andare in studio (…) Siamo tornati a fare dischi esattamente come li facevamo nell’80, nell’81 e quindi da lì è stata veramente una svolta nella mia vita”.
È così che nel 2022 post Covid, è arrivato l’album “La rivoluzione”, dal suono compatto e dai testi ancor di più nostalgici, malinconici con uno sguardo pre-occupato sul presente personale e sociale, intrecciando storie di una vita di rapporti umani, fin sulla soglia drammatica di una malattia degenerativa.
E arriviamo all’oggi con la pubblicazione de “La caverna di Platone” dove le canzoni seguendo il filo rosso, sorretto da incisi di pura poesia esistenziale, sono volutamente alla ricerca di un senso dell’oggi che non sia dimentico di ciò che eravamo ieri; che, cioè, la memoria storica sia giudizio e guida nel dramma quotidiano al quale spesso ci rassegniamo passivamente: “Uno scrive canzoni sulle cose che lo turbano. Quando hai vent’anni scrivi più canzoni d’amore, mentre invecchiando ti turbi anche aprendo un giornale o accendendo la televisione. Quelli di oggi sono tempi molto particolari perché oltretutto la guerra arriva in casa: noi bambini vedevamo il conflitto da posti che neanche sapevamo dov’erano. Arrivava col televisore in bianco e nero, era una fiaba, brutta ma una fiaba. Ora la guerra accendi il telefonino e la vedi”.
E infatti, nel nuovo album, Ruggeri dedica a questo argomento due brani fondamentali nella tracklist: “Zona di guerra”, dove cerca senza retorica di descrivere uno scenario di distruzione (anche morale) in cui tutti vi possiamo riconoscere la tremenda attualità, e “La bambina di Gorla”, un brano particolarissimo che tocca le corde di una diretta coincidenza storica “famigliare”. In quel quartiere di Milano nell’ottobre del 1944, un bombardamento alleato distrusse in pieno giorno gran parte del quartiere, perfino la scuola dove insegnava sua madre che a quella strage scampò miracolosamente: “È una storia che ho sentito sempre in casa da quando avevo 4 anni, ma ci ho messo 60 anni per scriverci una canzone. Stiamo parlando di un evento di moltissimi anni fa, ma purtroppo ci sono casi analoghi in questi giorni, Non è cambiato niente”. Ne è venuta fuori una canzone/ballata dall’arrangiamento scarno, a suo modo travolgente e, come accade nel testo dell’altra canzone citata con tema la guerra, con un testo dalle liriche di durissimo struggimento con la ripetuta “violenta” preghiera verso un Dio assente o impotente. E su questo rimandiamo alla fine di questo articolo.
Ma non c’è solo la guerra nelle “urgenze narrative” di Ruggeri nelle canzoni di questo intenso album: ci sono temi come l’Europa dei burocrati che annienta le sue origini culturali, la finta felicità nell’ostentazione della ricchezza materiale, gli intellettuali “scomodi”, martiri del pensiero unico, la dualità tra il reale e l’illusione artificiale creata dal potere politico. Ma anche temi esistenziali e introspettivi come l’affronto alla solitudine, nello svelarsi autobiografico delle proprie fragilità davanti al proprio pubblico.
Ma sbaglierebbe chi pensa ad un lavoro discografico particolarmente “pesante” all’ascolto. E in questo l’autore ci conforta: “Non penso che la forza di una canzone sia nel testo, almeno io spero d’essere sfuggito a questo sciattume, ho sempre fatto il possibile per evitarlo. Perché i testi sono importanti, sperando che non soffochino la musica”.
E allora com’è la confezione musicale de “La caverna di Platone”? Siamo nel solco del “Ruggeri style”: appassionate ballate, aperture orchestrali, addirittura un episodio retrò mitteleuropeo, sprazzi di rock compatto e corale, con un gran uso, forse inedito, di chitarre. Nulla di clamoroso ma una offerta creativa solida e altamente professionale (e di questi tempi tutto grasso che cola).
Alla fine si può affermare che anche questa volta Ruggeri non delude i suoi fedeli ammiratori (e ne potrebbe conquistare di nuovi). C’è una narrazione, in generale, cupa e pessimista, con aperture convinte ed esplicite alla speranza, c’è insomma che a guardare al passato senza un afflato di cambiamento oggi, si corra il rischio di ridursi ad uno sterile “reducismo”.
Ma siamo sicuri che “il poeta” Ruggeri non cadrà in questa trappola e ringraziandolo ancora una volta di averci regalato la sua arte, gli regaliamo noi il pensiero di un nostro maestro (che in qualche modo ha “incrociato” nei suoi anni liceali): “La formula dell’itinerario al significato della realtà è vivere il reale, intensamente, senza rinnegare e dimenticare nulla. Questa è l’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi” (Luigi Giussani, “Il senso religioso”).
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