Il Nobel negato a Trump va alla “trumpiana” Machado, leader d’opposizione in Venezuela: c’è lo zampino delle ex segretario NATO Stoltenberg

Che la Norvegia abbia negato il Nobel per la pace a Donald Trump può essere comprensibile. L’auto-candidatura muscolare del presidente Usa era stata sostenuta nelle ultime ore dal premier israeliano Benjamin Netanyahu e dal presidente russo Vladimir Putin: decisamente troppo per il Parlamento di Oslo, che di fatto assegna il premio.



E poi lo Storting – ultimo successore delle antiche assemblee vichinghe – è stato rinnovato appena un mese fa, con la faticosa conferma di una maggioranza di centrosinistra di fronte all’ascesa a destra di un partito dichiaratamente “trumpiano”.

Il premio è andato comunque a María Corina Machado, attivista “per la democrazia” in Venezuela. È una leader di prima fila dell’opposizione al regime dittatoriale di Nicolás Maduro, che è giunto a bandirla dalle ultime elezioni. Machado è invece apertamente sostenuta dall’amministrazione Trump – in particolare dal segretario di Stato “caraibico” Marco Rubio –  in una confrontation con Caracas giunta alle schermaglie militari.



Non ha quindi stupito che perfino la Bbc – non sospettabile di simpatie per Trump – abbia definito “smart” la decisione norvegese: “abile” o “intelligente” a seconda della traduzione preferita.

Il premio non è andato dunque a Trump, ma a una sua specifica azione di politica estera: votata tuttavia al ritorno della democrazia in un Paese dell’America latina, nello storico “cortile di casa” di Washington, che in passato vi ha volentieri tollerato o spesso incoraggiato autocrazie.

Jens Stoltenberg (Ansa)

Per Trump le porte del Nobel – che andrebbe a ristabilire la parità con Barack Obama – rimangono aperte: forse con l’incoraggiamento implicito di Oslo a “finire il lavoro” sul fronte russo-ucraino dopo il cessate il fuoco a Gaza.



Nello schiaffetto “abile” – calibrato al massimo – dentro il Nobel sembra d’altronde impossibile non vedere la mano di Jens Stoltenberg, ministro delle Finanze a Oslo (premier-ombra di Jonas Gahr Store, secondo molti osservatori) ma soprattutto segretario generale della Nato dal 2018 al 2024.

È l’uomo che – nominato durante il primo mandato di Trump – ha svolto con fedeltà ferrea verso gli Usa il compito di “comandante in capo” della Nato per gran parte della crisi ucraina. È stato Stoltenberg – leader di una democrazia europea fuori dalla Ue – a tenere unito il fronte atlantico nella linea dura di resistenza all’aggressione russa a Putin.

È stato lui a ripetere ogni giorno per due anni che Mosca andava controbattuta senza esitazioni, con il massimo possibile dei sostegni NATO a Kiev, militari e finanziari. E poco importa che dal 2022 al 2024 a Washington comandasse il dem Joe Biden.

Ma anche per il Pentagono o per il Dipartimento di Stato poco cambia se oggi Stoltenberg è nella stanza dei bottoni di un Paese che alla fine non assegna il Nobel agognato dal presidente-cannibale. L’importante è che la scelta sia “smart”.

 

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