Se si guarda alle origini e agli sviluppi storici del variegato mondo delle organizzazioni della società civile, è possibile individuare tre modelli identitari che, a loro volta, rinviano ad altrettante logiche di funzionamento e modelli organizzativi. Il modello più antico vede le organizzazioni non profit (Onp) come espressione forte ed emanazione diretta della società civile: un libero coerire di persone attorno ad un progetto da realizzare assieme e per il perseguimento di interessi collettivi, ancorchè non universalistici. Il principio regolativo su cui si regge tale modello è la sussidiarietà orizzontale, così come è andato affermandosi a partire dall’Umanesimo civile (XV secolo). Il secondo modello vede le Onp come sostegno della sfera pubblica. Si pensi a quelle realtà non profit create e/o supportate da soggetti collettivi-categoriali istituzionalizzati, quali il sindacato, gli enti locali, le IPAB, ecc. Il principio regolativo di tale modello è la sussidiarietà verticale. Si noti la differenza: mentre con quest’ultima si ha una cessione di quote di sovranità, con la sussidiarietà orizzontale si ha una condivisione di sovranità. Il terzo modello, infine, di più recente affermazione, vede le Onp come emanazione dei soggetti for profit. Si pensi alle plurime espressioni della corporate philanthropy e delle fondazioni d’impresa, ormai in via di vasta diffusione anche nel nostro Paese. Al fondo di tale modello troviamo il principio di “restituzione”: l’impresa for profit sa che deve restituire alla società una parte del profitto ottenuto, perché esso è effetto anche di ciò che la società è stata in grado di offrire o donare all’impresa.
E’ bensì vero che nel corso del tempo si è andata realizzando una certa ibridazione dei tre modelli identitari, e ciò in relazione anche alle specificità culturali dei vari Paesi o dei vari luoghi. Ma è altrettanto vero che, a seconda della prevalenza dell’uno o dell’altro modello, si hanno conseguenze diverse non solo per quanto attiene la governance delle Onp, ma anche in riferimento al tipo di relazioni che esse vanno a stabilire con le altre sfere della società. La questione cruciale da affrontare è allora quella di decidere se si vuole che i tre modelli possano coesistere pacificamente tra loro oppure se il disegno istituzionale, e quindi il quadro normativo, deve favorire uno solo di questi. Scegliere la seconda alternativa significa, di fatto, far prevalere, a lungo termine, il terzo modello di non profit. Non c’è bisogno di spendere parole per dimostrarlo. Ora, chi ritiene – e chi scrive è tra costoro – che vi siano buone ragioni per ritenere non desiderabile un esito del genere, ha l’onere di indicare quali esse siano. Ne indico due.
La prima è che un non profit pensato come cinghia di trasmissione del for profit non costituirebbe un miglioramento significativo della situazione: il ruolo delle Onp sarebbe infatti meramente additivo. Ma noi sappiamo che la cifra del non profit è proprio nel suo carattere emergenziale, e ciò nel senso che esso pone in discussione tutte le relazioni pre-esistenti tra i vari soggetti della società e lo Stato. Non si limita cioè ad aggiungere relazioni a quelle già in esistenza, ma ne muta la natura. La seconda ragione tocca la dimensione giustificativa delle Onp. Esse creano valore sia strumentale sia espressivo. Il primo è misurato in termini dei risultati prodotti – di qui l’enfasi che la letteratura in argomento dedica agli aspetti organizzativi e manageriali delle Onp: queste devono essere efficienti se vogliono essere sostenibili. Il valore espressivo, o simbolico, delle Onp è misurato, invece, dalla loro capacità di produrre beni relazionali e soprattutto capitale sociale di tipo linking – in poche parole, dalla loro capacità di dilatare gli spazi di libertà dei cittadini, i quali devono poter esprimere con le opere i valori o i carismi di cui sono portatori.
Ebbene, qualora a seguito di provvedimenti legislativi o amminstrativi fosse il secondo o il terzo modello identitario ad affermarsi come egemonico, è chiaro che il valore espressivo del non profit verrebbe stoltamente sacrificato a vantaggio di quello strumentale. Ma di Onp tutte sbilanciate sul lato della sola efficienza non è che si avverta oggi grande necessità – soprattutto nel nostro Paese. Ecco perché la posizione che favorisco è quella di un non profit plurale, che lasci ai soggetti della società civile portatori di cultura la scelta del modello che più ritengono consono alla loro “visione del mondo”.
Viviamo una stagione in cui si annunciano grandi mutamenti del quadro legislativo del nostro Paese per ciò che attiene al non profit. La legge del 2006 che istituisce la figura dell’impresa sociale sta per entrare in funzione (i quattro regolamenti tuttora mancanti dovrebbero vedere la luce entro la fine dell’anno); la riforma della legge 266/1991 sul volontariato è già stata incardinata presso la Commissione XII della Camera dei Deputati; la bozza di riforma del libro I, titolo II del codice civile che riguarda specificamente le fondazioni e le associazioni sta per essere portata all’attenzione del Consiglio dei Ministri; l’Agenzia per le Onlus sta predisponendo, in collaborazione con l’Agenzia delle Entrate, una proposta di legge volta a semplificare e rendere operativamente efficace il 5 per mille. Ed altro ancora v’è nelle agende parlamentari e governative (ad esempio, la riforma della legge 47/1987 sulle organizzazioni non governative). Occorre adoperarsi per scongiurare il pericolo che, in assenza di un dibattito appassionato ma civile sul “dove sta andando il non profit italiano”, i provvedimenti che si annunciano finiscano con l’imporre, in modo surrettizio, un particolare modello, il che finirebbe col produrre effetti perversi e col provocare pesanti lacerazioni.
Ha scritto Aristotele: “Ogni arte persegue un certo fine, ma appare evidente che vi è differenza tra i fini: alcuni sono attività; altri sono opere, che stanno al di là di quelle”. Il non profit autentico non svolge attività, ma realizza opere – che stanno al di là di quelle!