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Home » BORSE/ Banche in festa alla faccia dei burocrati

BORSE/ Banche in festa alla faccia dei burocrati

Gianni Credit
Pubblicato 28 Ottobre 2011
Borsa_Piazza_Affari_PortoneR400

Piazza Affari (Foto Imagoeconomica)

La chiusura euforica di Piazza Affari, ieri, ha confermato che il sistema bancario italiano è più solido di quanto non lo si dipinga. L’analisi di GIANNI CREDIT

Se “il mercato ha sempre ragione”, la chiusura euforica di Piazza Affari, ieri, ha confermato che il sistema bancario italiano è più solido di quanto non lo si dipinga. I rialzi netti e generalizzati sul listino da parte di tutte le big italiane del credito – UniCredit, Intesa Sanpaolo, Mps, Banco Popolare, Ubi – non sono perfettamente aderenti alle “stime” dell’Eba (l’authority presieduta dall’italiano Andrea Enria), subito rilanciate dalla Banca d’Italia. Il fabbisogno di nuovo capitale per raggiungere il nuovo target del 9% di Core tier 1 entro il giugno 2012 è di circa 15 miliardi: un’indicazione “preliminare”, ha subito sottolineato Via Nazionale, praticamente alla sua prima dichiarazione ufficiale sotto il governatorato di Ignazio Visco. Un’indicazione aggregata e non lineare, a leggere la raffica di comunicati da parte delle singole istituzioni: “Nessun fabbisogno” segnalato da Intesa; 7,4 miliardi per UniCredit (ma ridotti a 4,4 considerando gli strumenti subordinati), giudicati “gestibili” da parte dell’Amministratore delegato Federico Ghizzoni); 3 miliardi per Mps, la cui Fondazione ha già preventivato un problematico indebitamento. “Buffer” inferiori per Banco Popolare (che sta valutando la conversione immediata in azioni di un recente prestito obbligazionario) e per Ubi (1,5 miliardi, senza attese di “nuovi ricorsi al mercato”). È giù sui binari un aumento di capitale per la Popolare di Milano, con il direttore generale Enzo Chiesa confermato nella continuità manageriale e con Mediobanca a garanzia del collocamento dei nuovi titoli.

Se le banche italiane hanno un problema, si chiama titoli sovrani italiani, non “titoli sovrani greci”. L’investimento di portafoglio in Bot e Btp non ha incorporato “moral hazard” come gli acquisti speculativi effettuati soprattutto dalle banche francesi sui titoli del debito di Atene. In Italia abbiamo assistito – almeno in parte – alla rilettura di un copione vecchio di almeno trent’anni: il “vincolo di portafoglio” che spingeva tutte le banche nazionali (non esclusa la Banca d’Italia) a sottoscrivere titoli pubblici in proprio e per conto della clientela.

In breve: prima che intervenisse la Bce, sono state le banche italiane a sostenere il debito pubblico nazionale. Questo potrà essere scorretto per le regole della finanza globale, ma è anche vero che – questa nota lo ha sottolineato più volte – gli attacchi speculativi contro lo “spread” italiano sono stati alimentati anche da risparmio italiano manovrato da gestori internazionali (“Terreste i vostri soldi presso un gestore che gioca contro il debito dello Stato di cui voi siete cittadini-contribuenti?”). Le banche italiane soffrono dunque delle cosiddette “incertezze della politica” (interna) esattamente come le grandi banche europee soffrono – in parte – dell’oggettiva difficoltà di mettere la parola fine alla crisi greca. Ma – si è già spesso sottolineato – è la prima volta che la finanza globale accusa una crisi sistemica come quella scoppiata nel 2007-2008; è la prima volta che l’eurozona affronta un quasi-default da parte di un paese-membro.

Le misure varate dall’Ue sono comunque utili e tendenzialmente efficaci al risanamento del sistema? Sicuramente sono coerenti con quello che è stato l’approccio europeo (franco-tedesco) alla crisi, diverso da quello statunitense. La crisi bancaria non può essere superata semplicemente mantenendo in vita il sistema bancario e contando che il riaccumulo dei profitti sani i buchi lasciati nei bilanci dagli eccessi della finanza derivata. E i contraccolpi successivi sulle finanze pubbliche e sui cicli economici non possono essere curati da ondate di liquidità: i rischi (ormai quasi verificati) sono quelli di turbolenze speculative sui mercati e di ritorni di fiamma inflazionistici nelle economie.

L’euro-ricetta (abbastanza confermata dall’ennesimo summit) resta quindi: austerity fiscale (e integrazione sostanziale tra le politiche di bilancio, anche a costo di riduzioni di sovranità in paesi-membri del “club”) e risanamento reale del sistema creditizio, attraverso svalutazioni delle attività “illiquide” e ricapitalizzazioni severe. Il fondo Efsf – che si annuncia come una specie di contraltare della Bce come perno e carabiniere dell’Europa “salvata” – è la rappresentazione plastica di una zona politico-economica che vuol continuare a fondarsi su valori “reali”, non “derivati”: su risorse messe effettivamente a disposizione dagli Stati, l’esatto opposto delle virtualissime assicurazioni offerte dai mercati sotto il nome di “credit default swap”.

È chiaro che sul successo dell’exit strategy europea pendono molte variabili: da un lato gli Stati Uniti (in anno elettorale) stanno seguendo un percorso divergente; dall’altro sono ancora tutte da scoprire le mosse del “convitato di pietra” cinese: Pechino sta sostenendo l’euro a difesa delle proprie riserve valutarie e della propria competitività commerciale, ma non ha interesse a un’Europa debole, in lunga recessione. Su scala inferiore, neppure l’Unione europea e l’Eurozona possono permettersi un’Italia troppo “punita” dai mercati per il suo debito elevato: ma l’Italia non può permettersi – come la Grecia – di attendere soccorsi, negoziando le condizioni della propria resa.

Le banche italiane – in questa cornice – “hanno” un problema (il rating sovrano e il giudizio alterno delle Borse) ma non “sono” un problema. Sono una leva per la ripresa, se accettano di giocare per la ripresa del Paese, recuperando la loro funzione strutturale e storica di gestori del risparmio delle famiglie verso il credito alle imprese. Il Paese – pur a corto di credibilità e di potere contrattuale in Europa – tanto più potrà aiutare le “sue” banche se in sede di definizione delle nuove regole nell’eurozona, quanto più terrà fermo un principio: un bilancio pieno di derivati globali “pesa” di più in termini di rischio di un bilancio pieno di crediti a imprese nazionali. 


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