FINANZA & POLITICA/ Unicredit e Intesa, chi vuole (o non vuole) la fusione?

- Gianni Credit

In questi giorni si è parlato di una possibile operazione finanziaria: la fusione tra i due principali gruppi bancari italiani, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il commento di GIANNI CREDIT

Bazoli_GiovanniR439 Giovanni Bazoli (Infophoto)

Il riemergere dell’ipotesi di aggregazione fra UniCredit e Intesa Sanpaolo non è sorprendente: in questa nota segnaliamo da settimane una naturale ripresa delle operazioni sul grande scacchiere politico-finanziario interno, al riparo delle propaggini dell’emergenza tecnica e delle prime turbolenze elettorali, già molto forti. L’“anno dello spread” (il compleanno di “quota 575” cade venerdì 10) non ha del resto lasciato immutati gli assetti del capitalismo bancario nazionale.

È vero, anzitutto, che tutte le grandi istituzioni finanziarie italiane (a cominciare da UniCredit) quotano molto meno dei loro mezzi propri e del loro valore patrimoniale netto: quindi sono potenzialmente appetibili per scalate non appena lo spread si normalizzasse e il ciclo economico interno ripartisse. Ma è accaduto anche dell’altro, sul fronte più squisitamente domestico.

Mediobanca, per prima, è uscita molto indebolita dal dissesto FonSai: sia sul versante finanziario che su quello giudiziario. E non è stato certo una coincidenza l’approdo al vertice Generali – per la prima volta – di un amministratore delegato esterno non solo a Trieste, ma anche a Piazzetta Cuccia, che ne resta azionista-dominus. Né è di poco significato che Mario Greco sia stato voluto ai vertici del Leone soprattutto da “nuovi capitalisti” come Leonardo del Vecchio o Francesco Gaetano Caltagirone: imprenditori lontanissimi dal cliché (logorato) del socio-cliente di Mediobanca. Entrambi, guarda caso, sono azionisti di UniCredit (che resta l’unico azionista strategico di Piazzetta Cuccia), anche se con percorsi diversissimi: il “patron” di Luxottica c’è da quasi vent’anni, investitore della prima ora all’epoca della privatizzazione; Caltagirone ha trasferito da poco in Piazza Cordusio il suo impegno nel settore bancario dopo la sfortunata esperienza al Montepaschi.

Non solo per questo UniCredit appare comunque oggi la vera stanza di compensazione di equilibri in evoluzione: la settimana scorsa sottolineavamo qui la coincidenza temporale fra la “mezza discesa in i campo” di Luca di Montezemolo in politica – alla testa del “manifesto dei Cento” – e la sua nomina a vicepresidente di UniCredit, in rappresentanza di al Aabar, il fondo sovrano di Abu Dhabi che è in questo momento il primo socio singolo di Piazza Cordusio al netto delle partecipazioni formalmente intestate al governo libico.

Non da ultimo, le due Fondazioni che assicurano lo storico presidio italiano in UniCredit – CariVerona e Crt – sono le sole, fra le big italiane dell’Acri, a sembrare protette dall’inevitabile gioco di pressioni legato a una tornata di rinnovi: Paolo Biasi è in carica fino al 2016 sotto il “patronage” del sindaco leghista di Verona Flavio Tosi; a Torino è ormai in dirittura d’arrivo – senza scosse – un cambio della guardia istituzionale fra Andrea Comba e Antonio Marocco (con l’attesa di una relativa continuità dell’influenza di Fabrizio Palenzona, tuttora “plenipotenziario” di Crt in UniCredit e Mediobanca). Sono invece le Fondazioni di Intesa (Cariplo, Carisbo, CariFirenze, CariPadova) a essere – pressoché tutte – interessate da rinnovi delicati, perché coincidenti con una fase elettorale incerta e complicata: anche a valle per gli enti locali designanti la maggioranza relativa dei consiglieri.

È in questo quadro che un mese fa, il presidente di UniCredit, Giuseppe Vita, non ha escluso l’ipotesi di uno spin-off delle attività italiane del gruppo, anche se ha ribadito che non è all’ordine del giorno. Vita, ex presidente del gigante farmaceutico tedesco Schering e di Allianz Italia (azionista di UniCredit), è un italiano adottato dall’“Azienda Germania”, che è presente nell’azionariato di Piazza Cordusio, quasi sicuramente al di là della quota ufficiale che la Ras ha mantenuto fin dalla privatizzazione. Prospettando – almeno come ipotesi – una divisione di UniCredit in due grandi unità ha parlato inequivocabilmente tenendo conto di entrambe le componenti del gruppo – quella italiana e quella tedesca – presenti sia nell’azionariato che nel corpo aziendale.

Secondo alcune interpretazioni, era già nelle premesse “non scritte” della fusione del 2005 fra UniCredit e Hvb-BankAustria che ad Alessandro Profumo – ritenuto allora il miglior Ceo bancario del continente – fosse affidata essenzialmente la ristrutturazione della più inefficiente delle grandi banche austro-tedesche. La grande crisi economico-finanziaria e la leadership assunta dalla Germania nell’eurozona (fra poco terreno anche di Unione bancaria) starebbe dunque creando le condizioni di un esito in parte annunciato: l’“Azienda-Germania” si riprenderebbe “ciò che era già suo” (Hvb e BankAustria), ma anche “gli spazi vitali nell’Est Europa” (dalla Polonia alla Turchia) che l’UniCredit di Profumo aveva cominciato ad annettersi giocando d’anticipo perfino su Deutsche Bank o Commerzbank, più attratte verso Ovest dai flash della finanza derivata.

All’“Azienda Italia” resterebbe soltanto “ciò che era suo”: la somma del vecchio Credit, del Rolo, di tutte le “vecchie” Casse di Verona, Torino, Treviso, Modena che diedero vita alla fusione-blitz del ’98. In più il polo Capitalia (la vecchia Banca di Roma, il vecchio Banco di Sicilia, la vecchia Bipop) , aggregata nel 2007. In più – soprattutto – quel pacchetto Mediobanca unico sopravvissuto del tris che – vivo Cuccia – la legava alle sue tre storiche Bin (Comit, Credit e Bancaroma). Quel cordone era duplice: era azionario e bancario, perché la raccolta di Via Filodrammatici era garantita da una convenzione di ferro fra Mediobanca e Bin.

Perché non ripartire da quel modello? Una grande banca ri-concentrata su retail (è stata la strategia del primo Profumo) e su corporate ritarato sull’“Azienda Italia” (lontano dai pericolosi giri di valzer con i derivati venduti a medie imprese e piccoli comuni). E poi Mediobanca che può restare oggi quello che era ieri, ma in una geografia inevitabilmente mutata. E poi, a valle, anche le Generali: che hanno in fondo già cominciato un cammino nuovo, ma – forse per la prima volta – come grande gruppo italiano.

Quando Palenzona, nel weekend, ha allontanato (almeno da sé) la paternità del rilancio della fusione UniCredit-Intesa, è parso implicitamente accreditare che l’ipotesi spin-off – citata dal suo presidente – è l’unica in questo momento esistente nei cassetti strategici di UniCredit: quanto meno la più logica, in attesa delle necessarie verifiche (presso i soci, presso il management, in Borsa, presso le autorità di vigilanza, ecc.). Certamente, comunque, è un’ipotesi che pare raccogliere l’interesse preliminare – se non ancora il consenso – di diversi attori: le Fondazioni e gli azionisti italiani di UniCredit, i suoi soci tedesco-centrici, il presidente, il management di Mediobanca e delle Generali.

Può darsi che non sia sufficiente: più di dieci anni fa, c’era un interesse vasto al tavolo dell’originario progetto di fusione fra UniCredit (ben prima delle operazioni Hvb e Capitalia) e Intesa (sei anni prima della fusione con il Sanpaolo Torino). Allora a bloccare il piano furono la resistenza di Vincenzo Maranghi (appena succeduto a Enrico Cuccia al vertice Mediobanca) e le perplessità dello stesso Governatore Antonio Fazio di fronte alla nascita di una superbanca al centro dell’“Azienda Italia”. A rispolverare quel progetto oggi – in un mondo che allora era impossibile perfino concepire – è con sostanziale evidenza il presidente di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli.

Il suo approccio – in sé non contestabile in quanto consolidato nel tempo – guarda agli “interessi del Paese”. Una scalata a UniCredit – più che teoricamente possibile – priverebbe l’“Azienda Italia” di un “campione nazionale bancario”: questo dopo la rinuncia a Bnl (BnpParibas) Cariparma (Credit Agricole) e dopo il grave incidente AntonVeneta (prima strappata da Abn Amro nella rocambolesca estate 2005, poi ricomprata da Mps nelle condizioni che ne hanno decretato il virtuale default). Bazoli propone quindi la sua Intesa Sanpaolo come cavaliere bianco preventivo per UniCredit.

La sua ipotesi di fusione guarda d’altronde allo spin-off di “UniCredit Italia” come a un vincolo: le attività italiane di Unicredit dovrebbero essere cedute per ragioni di sostenibilità economica di “UnIntesa” e di Antitrust. A chi? A “lotti” alle altre banche grandi e medie (Ubi, Banco Popolare, ecc., senza escludere Mps)? E con quali soluzioni finanziarie? Con un ruolo diretto delle Fondazioni come azioniste para-pubbliche all’interno di un nuovo “piano regolatore”? Oppure a un grande gruppo estero? Ma la stessa “Azienda Germania” non è interessata a UniCredit Italia, ma a “UniCredit-Germania-e-Resto-d’Europa”: cioè alle attività estere di UniCredit, che a Intesa mancano quasi del tutto.

È d’altronde trasparente l’intento di Bazoli di “assicurare all’Italia” un controllo saldo della filiera Mediobanca-Generali, alle quali sono agganciate anche Telecom e Rcs. Ma – confrontato con lo spin-off di UniCredit ipotizzato in casa UniCredit – non è così evidente l’obbligatorietà dell’intervento di Intesa Sanpaolo, ancorché comprensibile negli intenti. È infatti indubitabile la preoccupazione del Professore di venire marginalizzato dalla possibile riaggregazione UniCredit-Mediobanca-Generali: sia in Rcs (i cui equilibri sono in tendenziale cambiamento in vista dell’aumento di capitale a sostegno del nuovo piano di rilancio), sia in Telecom. Qui la partita sembra però intrecciarsi con un altro dossier politico-finanziario di primo livello in fase di definizione in queste settimane: l’assestamento della proprietà Cdp.

Il braccio di ferro tecnico-finanziario fra Fondazioni e Tesoro sul prezzo di conversione del 30% di azioni privilegiate in mano agli enti è in parte solo apparente e in ogni caso superficiale rispetto al tema sostanziale. La Cdp è per molti versi la “nuova Mediobanca”, assai più che la “nuova Iri”: conterebbe di più Telecom controllata da Mediobanca-Generali-Intesa o la rete Telecom scorporata verso il fondo F21 controllato dalla Cdp? E anche i nuovi “fondi strategici” di private equity targati Cdp sono ancora alle fasi di assaggio: bisognerà vederli all’opera quando comincerà lo shopping vero (perché non già su Pirelli? Per non parlare della Rai). Tutte questo al netto della strategia di “edilizia sociale” che ha nell’Acri e nella Cariplo di Giuseppe Guzzetti la vera cabina di regia.

Ecco: la Cariplo, storica “prima inter pares” tra gli azionisti di Intesa Sanpaolo. È immaginabile che la banca presieduta da Bazoli (in fase di rinnovo anticipato) si auto-proponga come “pigliatutto”: da Cdp a Mediobanca? Dalla rete Telecom, al Corriere della Sera, alle Generali? Nell’Italia-che-sarà, dopo il 7 aprile 2013, tutto appare possibile: anche la cancellazione definitiva di quella che può certamente apparire ormai una “vecchia Italia”. Quella però, in cui, Mediobanca e l’imprenditoria privata stavano da una parte e la Cariplo dall’altra. Il vero “duopolio” bancario dell’Italia repubblicana quanto meno ha retto la prova di molte temperie: compresa la scomparsa di padri fondatori ed eredi.





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