Un aperto altolà all’aggressività dei magistrati sulle presunte tangenti Finmeccanica. Un sostanziale successo personale nella partita Rai, con la difesa riuscita della “governance” attuale e forse anche dell’incarico al direttore generale Lorenza Lei (tutto questo in contropartita all’azzeramento del “beauty contest” per le frequenze del digitale terrestre, in apparente sfavore di Mediaset). Non da ultimo, il clamoroso stop imposto dall’Antitrust alla fusione Unipol-Fonsai. Uno scacchiere, questo, sul quale il ruolo del ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, è stato forse meno visibile, ma non per questo meno rilevante nell’arco degli ultimi giorni. E non solo perché il mercato dei servizi assicurativi è comunque sotto l’alta vigilanza governativa dell’ex ministero dell’Industria.
La “longa manus” che ha mosso il Garante della Concorrenza nell’aprire un’istruttoria sul piano “Grande Unipol” – mettendone a serio rischio l’esito finale – è stata in realtà quella dell’ex presidente Antonio Catricalà, trasbordato nel governo Monti, come sottosegretario alla Presidenza al posto di Gianni Letta, grande patron di tutti gli alti “commis” di Stato. È stato dunque il “partito romano” ad aver rotto gli indugi sul complesso salvataggio del gruppo Ligresti, non senza difficoltà. Si è dovuta alla fine mobilitare l’Antitrust di Giovanni Pitruzzella per superare le continue esitazioni del principale vigilante sulle assicurazioni: l’Isvap dell’uscente Giancarlo Giannini, ai minimi del prestigio per la costante latitanza nel presidiare una fetta importante del mercato finanziario.
Per tante ragioni defilata si è tenuta d’altronde la Consob del milanese Giuseppe Vegas, fido dell’ex super-ministro Giulio Tremonti, a cavallo tra Lega e Pdl. È in ogni caso con il “partito capitolino” (l’antico establishment istituzionale e burocratico di simpatie andreottiane, confluito nel Pdl come contraltare al berlusconismo “aziendale” del Nord) che Passera sta incrociando le rotte politico-finanziarie verso l’unico traguardo certo per tutti: le elezioni politiche della primavera 2013.
Il riassetto del gruppo Premafin-FonSai attraverso la fusione con il polo finanziario della Lega Coop ha avuto fin dall’inizio molti avversari: non ultimi, probabilmente, i componenti la stessa famiglia Ligresti, che il progetto messo a punto da Mediobanca di fatto estrometteva di scena. I Ligresti sono sempre stati vicinissimi al “partito” romano: da Cesare Geronzi allo stesso Silvio Berlusconi, con cui un tempo l’ingegnere siciliano condivideva l’amicizia privilegiata con Bettino Craxi.
La discesa in campo del tandem Palladio-Sator (pilotato dall’ex “fuoriuscito” da Mediobanca, Matteo Arpe, più tardi amministratore delegato di Capitalia) è subito sembrato coagulare diverse spinte: non ultima, certamente quella delle Generali, che non hanno mai tollerato la crescita di concorrenti interni (basti ricordare l’Opa sull’Ina). Ma non va dimenticato che anche la Fininvest ha interessi assicurativi (Mediolanum). Per di più a Trieste l’amministratore delegato Giovanni Perissinotto è sotto pressione dopo la brusca espulsione dalla presidenza di Cesare Geronzi. E molti grandi soci (dai francesi capitanati da Vincent Bolloré a Francesco Gaetano Caltagirone) avevano motivi finanziari ed extrafinanziari per non favorire uno sblocco della crisi FonSai: non ultimo il desiderio di tenere sotto ulteriore scacco il management di Mediobanca, in forte difficoltà fin dall’inizio della crisi Ligresti, nella quale l’istituto si è ritrovato nello scomodo ruolo triplice di azionista, creditore (partecipato da UniCredit, altro grande finanziatore) e advisor.
L’amministratore delegato di Piazzetta Cuccia, Alberto Nagel, giusto in questi giorni ha dovuto d’altronde abbandonare il consiglio del Leone, per obbedire anche alla singolare stretta sulle incompatibilità negli incarichi ai vertici di banche e assicurazioni, decisa dal decreto “salva-Italia” varato lo scorso dicembre dal governo Monti. Una norma – inequivocabilmente ispirata dal “partito romano” – che ha provocato più di un problema agli equilibri dell’establishment settentrionale: basti pensare che Fabrizio Palenzona (come del resto Ennio Doris) ha dovuto lasciare il cda di Mediobanca per restare vicepresidente di UniCredit, mentre lo stesso Giovanni Bazoli è stato costretto a rinunciare alla presidenza di Mittel (azionista di Intesa Sanpaolo e Rcs). A proposito: a giorni il cda Rcs è atteso all’indicazione di un nuovo amministratore delegato, ma la situazione è già cambiata a sole due settimane dal violento scontro in patto di sindacato. Bazoli è, per l’appunto, dimissionario da Mittel mentre Renato Pagliaro – ritenuto da Diego Della Valle il regista della “continuità” al Corriere della Sera sulla figura del direttore Ferruccio De Bortoli – è assediato in Mediobanca.
La logica della stretta sulle incompatibilità, in ogni caso, è la stessa che ha spinto l’Antitrust a bloccare la fusione Unipol-Fonsai in un momento critico. Logica tecnocratica, beninteso: quella politico-finanziaria – che viene appunto fatta risalire a Passera – è la resistenza alla crescita della vera tecnostruttura bancassicurativa dell’ala storica del Pd. Perché far crescere Unipol (l’esercito dei leader ex Ds Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani)? Certo, una definitiva degenerazione della situazione di Premafin-FonSai sta già esponendo il gruppo a pesanti rischi d’intervento giudiziario: ma perché, ad esempio, dirottare su Unipol in questa fase un pacchetto importante del Corriere? Perché dare un accesso virtuale alla Lega Coop anche agli interessi immobiliari del gruppo Ligresti?
Non dimentichiamo che Passera – ora attraverso anche il suo ex manager in Intesa Mario Ciaccia – ha lo sviluppo infrastrutturale come triplice “mission”: ieri super-banchiere, oggi super-ministro tecnico, domani probabile leader politico, forse addirittura candidato premier. Di quale schieramento? Molto probabilmente non del Pd; non facilmente di un raggruppamento di centro come quello che sta immaginando il leader Udc Pierferdinando Casini. Più facile vedere Passera punta di diamante di un “nuovo Pdl”. Successore designato di Berlusconi (diciamo al posto che avrebbe potuto essere di Giulio Tremonti o di Luca di Montezemolo). Aperto ad alleanze centriste, anche grazie ai solidi network nel mondo cattolico. Ma non sgradito, Passera, neppure alla Lega Nord: grazie al lungo passato di banchiere settentrionale e – ora – alla capacità di interpretare tutte le insofferenze – “romane” e “milanesi” – per l’inchiesta Finmeccanica (delle attenzioni del super-ministro per la strategica industria energetica questa rubrica ha già scritto a lungo: dal risiko delle grandi utilities fino al cruciale sganciamento di Snam da Eni).
P.S.: Non avrebbe torto chi – anche alla fine di questo brogliaccio – facesse notare che Passera dovrebbe dedicarsi giorno e notte allo “Sviluppo”, la vera emergenza nazionale per la quale è stato chiamato al governo. È vero, per la crescita il “super-ministro della crescita” non ha fatto finora nulla di nulla. Ha solo un paio di attenuanti. La prima è che lui è stato sì un brillante “bocconiano dell’anno”, ma in Bocconi non ha mai preteso di insegnare e tanto meno ne è stato rettore-presidente-pontefice massimo come il premier Mario Monti. Where are you Mario, dove sei finito Mario? E a proposito di “Big Marios”: il presidente della Bce, Mario Draghi oggi lamenta apertamente l’austerity germano-centrica. Ma non è forse lo stesso Draghi che lo scorso agosto ha co-firmato una letterina in cui da Francoforte si ingiungeva al governo italiano (solo al governo italiano) una cura da cavallo, prontamente seguita a base di tasse e pensioni? Where were you Mario, dov’eri allora Mario?