La decisione del governo britannico di privatizzare in Borsa la Royal Mail, annunciata quattro giorni fa, per ora tiene banco in Italia solo fra gli addetti ai lavori: complice la narcosi surreale imposta dal caso Berlusconi alla vita politica nazionale. Ma tra qualche giorno – a maggior ragione dopo la scadenza elettorale tedesca – il varo della legge di stabilità 2014 richiamerà tutti i policymaker italiani a un duro principio di realtà sul terreno della politica economico-finanziaria. Si ricomincerà inevitabilmente a discutere di privatizzazioni e ci sarà prevedibilmente chi sventolerà subito i dispacci londinesi sulla svolta di un’azienda pubblica che ha quasi cinque secoli di storia.
Si citerà la volontà dell’esecutivo Cameron di fare un po’ di cassa straordinaria (fra l’altro dopo molti salvataggi bancari e tagli al welfare). Si ragionerà sulle prime cifre in circolazione: fra i 2 e i 3 miliardi di sterline di valore stimato del “deal”, cioè fra i 2,5 e i 3,5 miliardi di euro. Si sottolineerà la fame della City di una “big Ipo” dopo anni di magra e si annoteranno subito i nomi delle due investment bank globali chiamate al tavolo: Goldman Sachs e Ubs. Si rammenterà che i servizi postali in senso stretto sono ormai pienamente liberalizzati nell’Ue. Non si mancherà di registrare la forte opposizione delle “unions” che rappresentano i 150mila dipendenti delle Poste ancora per poco “di Sua Maestà”. Ma una nuova stagione di privatizzazioni può cominciare anche in Italia dalle Poste “della Repubblica”? E da un’Ipo in Borsa in stile anni ‘90?
Che l’Italia debba pensare a mettere rapidamente sul mercato qualche suo asset sembra un’opzione senza alternative: servirà a rassicurare mercati ed Europa sulla volontà di Roma di tenere sotto controllo le sue finanze; e forse il governo Letta (I o II, poco conta) immagina già di poter trovare spazi minimi di manovra pro-ripresa che un budget puramente congiunturale non avrebbe. Ma sono ormai due anni che il Tesoro (a parlarne per primo fu il vice-ministro Vittorio Grilli) ha riaperto il dossier-dismissioni: la cifra obiettivo (100 miliardi in cinque anni) è rimasta però finora sulla carta e non è certo dal patrimonio immobiliare – vasto ma caotico e di gestione molto problematica nel “dopo-bolle” – che il ministro Fabrizio Saccomanni può attendersi cassa “maledetta e subito”.
Restano i pacchetti azionari gioiello: Eni, Enel e Finmeccanica. Ma dopo le molte “tranche” susseguitesi a partire dalla fine degli anni ‘90, mettere mano alle partecipazioni residue significherebbe assumere decisioni politico-strategiche definitive: difficile prevederle in questa fase. Rimangono le Poste: “intatte” al 100% nel portafoglio pubblico; e niente affatto impresentabili ai mercati, come invece sarebbero state vent’anni fa, nell’epoca d’oro delle privatizzazioni italiane.
Il gruppo pilotato da Massimo Sarmi (succeduto a Corrado Passera) ha chiuso il 2012 con un miliardo di utili. Però, a differenza della Royal Mail, le Poste italiane sono oggi anzitutto un conglomerato finanziario. Il Banco Posta è l’intermediario retail con la rete fisica più estesa del Paese (14mila sportelli); mentre Poste Vita e Poste Assicura scalano le classifiche. La raccolta postale bancaria è vicina ai 400 miliardi, fra conti correnti, libretti e buoni fruttiferi (la prima banca italiana, UniCredit, ha depositi per 560 miliardi). Per milioni di famiglie italiane le Poste non sono più il canale di gestione della corrispondenza o del piccolo trasporto, ma sono diventate il principale fornitore di servizi finanziari “low cost”: a cominciare dalle carte di pagamento, ma senza dimenticare l’asset management del “piccolo risparmio” dopo l’apocalisse che ha spazzato via la fiducia per gli intermediari professionali sul mercato.
Non sorprende che – da sempre – il sistema bancario italiano guardi con diffidenza competitiva a un soggetto che assomiglia sempre meno a un carrozzone pubblico: la possibilità di utilizzare i “bancomat” bancari allo sportello postale è stata una piccola “caduta del muro” in Italia. Sull’altro versante, se il BancoPosta è oggi la vera “azienda nell’azienda” delle Poste, il suo ruolo di “provider” finanziario è rapidamente cresciuto di ruolo mano a mano che il suo utilizzatore – la Cassa depositi e prestiti – è diventata soggetto strategico per l’Azienda Paese su fronti impegnativi: la lotta al “credit crunch”, il private equity anti-crisi e di presidio all’italianità, il social housing e la garanzia per i mutui delle famiglie.
È difficile immaginare di “vendere in Borsa” tutto questo: per di più dopo il destino tragico che, nell’arco di un quindicennio fino a questi giorni, ha visto auto-distruggersi un’azienda-Paese sostanzialmente gemella delle Poste come Telecom. Certamente non mancherà chi, nelle prossime settimane, additerà un altro esempio; guarda caso “made in Germany”. La Postbank è stata scorporata da Deutsche Post e ceduta alla Deutsche Bank (il weekend del crac Lehman….). La capogruppo è invece una multinazionale dei servizi di consegna con oltre 500mila dipendenti in 200 paesi, con un fatturato di oltre 70 miliardi. È quotata in Borsa ma è controllata al 30% dalla Kfw: l’omologo tedesco della Cassa depositi e prestiti. Ci sarà certamente occasione per riparlarne: senza pregiudizi.