Un anno fa, a Natale, Matteo Renzi agitava lo spettro di una commissione parlamentare d’inchiesta sulla crisi del sistema bancario nazionale. Non era un dovere stretto per il premier: le risoluzioni di Banca Etruria & C. erano state formalmente decise dal governo, ma i capitali di sopravvivenza per gli istituti in dissesto erano stati forniti da altre banche italiane, non dallo Stato. Ben presto, comunque, fu chiaro che Renzi aveva minacciato la commissione d’inchiesta in via di difesa preventiva contro i primi attacchi che puntualmente giunsero contro il ministro Maria Elena Boschi, coinvolta con la famiglia nel crac Etruria. Erano evidenti due altri obiettivi strumentalmente politici: tenere a bada la minoranza Pd (più compromessa di Renzi nella crisi Mps, già allora conclamata), ma anche “l’opposizione tecnocratica” , incarnata dall’ex premier Mario Monti. Dopo che il ministro Boschi superò due mozioni parlamentari sfiducia, di commissione d’inchiesta non si parlò più.
Nessuno la invocò – anzi – quando la crisi si aggravò in primavera, con i dissesti di Popolare di Vicenza e Veneto Banca: anch’esse furono salvate con quattrini “collettivi” (raccolti da Atlante presso banche, fondazioni, assicurazioni), ma non “pubblici”, salvo un versamento minoritario da parte della Cdp. E, politicamente, l’esplosione del focolaio nel Nordest metteva sotto pressione la Lega Nord (leader nella Regione Veneto) e vari altri mondi pre-renziani della seconda Repubblica, legati trasversalmente sia a Gianni Zonin che a Vincenzo Consoli.
I diversi trattamenti riservati all’ex presidente della Popolare di Vicenza (tuttora semplicemente indagato per ostacolo alla vigilanza dalla Procura locale) e all’ex amministratore delegato della Veneto (da mesi in custodia cautelare ai domiciliari ordinati dalla Procura di Roma) segnalavano d’altronde quanto differenti fossero già allora i metri utilizzati dalla stessa autorità giudiziaria. Anche a Siena si è già celebrato un veloce processo “ante litteram”, ma su vicende incomparabilmente marginali rispetto al fallimento dichiarato nei giorni scorsi per il Monte. Per non parlare di quanto è accaduto ad Arezzo: dove da un anno è in corso un braccio di ferro politico-giudiziario attorno alla stessa Procura, accusata di azioni insabbiatrici delle inchieste sul crack Etruria.
Il decreto sul salvataggio Mps stanzia ora 20 miliardi statali: una cifra enorme (basti pensare a quanta ricostruzione si potrebbe realizzare nella aree terremotate). Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan fa il suo mestiere quando si affanna a ricordare che non aumenterà il deficit: il debito però sì, benché molti commentatori si affannino a loro volta a prevedere una happy end per il caso Mps, con una rivendita con profitto per il Tesoro.
Il contribuente italiano – che rischia di assorbire in ultima istanza i prevedibili contraccolpi dalla Ue sull’aiuto pubblico sostanzialmente prestato a debito al Monte dei Paschi di Siena – questa volta ha il diritto di sapere come e perché il Monte è crollato su se stesso e perché nell’arco di almeno quattro anni sono falliti tutti i tentativi di Puntellarlo. Come andarono le cose davvero in occasione dell’acquisizione di AntonVeneta nel 2007? A chi e quanto Rocca Salimbeni ha fatto credito (Luigi Zingales sul Sole 24 Ore ha chiesto la pubblicazione dei primi cento debitori)? Chi ha deciso cosa negli ultimi dieci anni nel cda (da Francesco Gaetano Caltagirone ai rappresentanti delle coop toscane e umbre)? Qual è stato il ruolo reale della Fondazione Mps, dei suoi “domini” storicamente legati al Pci-Pds-Ds-Pd e ultimamente di Denis Verdini, ex pretoriano toscano di Silvio Berlusconi, avvicinatosi poi a Renzi.
Jamie Dimon – il capo di JPMorgan, incaricato da Renzi di salvare Mps – è stato più volte messo sulla griglia del Congresso americano: dopo il 2008 (quando il bilancio federale “investì’” 700 miliardi di dollari per tenere a galla il sistema bancario) e soprattutto dopo il 2011, quando la filiale di Londra della prima banca Usa perse miliardi di dollari per scommesse speculative troppo disinvolte sui miliardi di liquidità che la Fed ha immesso con il pretesto di rimettere in salute il sistema bancario dopo il crac Lehman Brothers. Il controllo democratico sugli scandali bancari non è condizione sufficiente per evitare che si ripetano: ma è l’impegno minimo di una democrazia non ancora rassegnata a essere derubricata a ”post-democrazia”.
(P.S.: Se Renzi – come ha a lungo sperato un opinionista come Eugenio Scalfari – ha in sé il dna dello statista, dovrebbe rileggere il cursus del suo predecessore Giovanni Giolitti, uno dei quattro o cinque primi ministri che hanno modellato l’Italia unita. Giolitti cadde all’esordio come premier sullo scandalo della Banca Romana: era già cinquantenne ed era un grigio burocrate sabaudo. Superò tutte le inchieste di allora e dovette attendere una decina d’anni prima di tornare a guidare il governo. Oggi il suo nome è associato, nei testi scolastici, al primo e non meno decisivo boom economico italiano. Gli avversari di allora lo bollavano come “ministro della malavita”, ma anche nell’Italia liberale sapeva come confrontarsi in modo vincente con la democrazia diretta: il suo testamento politico, nel 1913, fu il suffragio universale maschile).