Dall’inizio dell’anno le Poste italiane stanno martellando di pubblicità i media: portate i vostri soldi da noi, sottoscrivete i nostri buoni fruttiferi garantiti dallo Stato. Quei buoni hanno ormai un rendimento simbolico: pochi centesimi, allineati alle condizioni di mercati iperliquidi, vanificando nei fatti anche l’agevolazione fiscale al 12,50% sul prelievo alla fonte. Qualche ente di tutela dei consumatori ha pure arricciato il naso per messaggio potenzialmente ingannevole. Ma nessuno gli ha badato.
Dall’inizio dell’anno centinaia di migliaia di italiani fanno la fila presso i 14mila sportelli delle Poste, aprono nuovi conti, trasferiscono liquidità, sottoscrivono buoni (in)fruttiferi preferendoli come bene rifugio perfino ai BoT, che hanno d’altronde rendimento negativo. Meglio le Poste garantite dallo Stato rispetti ai depositi bancari a rischio bail-in europeo. Meglio le Poste garantite dallo Stato perfino rispetto ai titoli di debito emessi dello Stato stesso. Se le Poste falliranno o chiuderanno gli sportelli sarà in un estremo scenario “sudamericano”. Mentre un “taglio di capelli” ai possessori di debito pubblico italiano (scegliete voi se via ristrutturazione o via imposta patrimoniale) è un più realistico scenario “greco”: materializzatosi poco tempo fa dietro casa, dentro la Ue e l’eurozona.
La garanzia statale ai prodotti postali, intanto, “nessuno gliela può togliere”, chioserebbe Manzoni: neppure l’arcigna commissaria danese all’Antitrust Ue, Margrethe Verstager. Come dovrebbero riconoscere anche Angela Merkel o Jean-Claude Juncker: le Poste italiane la garanzia l’avevano da prima. Come le impudenti Casse di risparmio tedesche. Può darsi che la cosa disturbi in casa le martoriate banche italiane e provochi qualche azione di lobbying interna anti-Poste, ma tant’è.
Dall’inizio dell’anno, in ogni caso, le Poste appena privatizzate hanno resistito al listino molto meglio delle cugine banche. In gennaio l’indice Ftse Italia Banche ha perso oltre il 22%; UniCredit, prima banca italiana, ha ceduto il 30,7%. Le Poste hanno perduto solo il 3,87% e alla chiusura di venerdì erano ancora sopra il prezzo di collocamento di 6,75 euro dello scorso ottobre. Il 7 gennaio, all’inizio del “gennaio nero” delle banche e della Borsa in Italia, le Poste hanno toccato il loro massimo storico: 7,20 euro, quasi il 7% di upside in due mesi, dopo un’Ipo che pure non aveva entusiasmato granché i mercati.
Lo Stato è rimasto azionista di maggioranza assoluta, l’azienda affidata a Francesco Caio dev’essere ancora parecchio ristrutturata, il core business postale (meglio: la delivery fisica) è ormai esposto alla concorrenza globale, roba da Amazon che schiera i droni. Il BancoPosta rimane invece un oggetto aziendale di valore: resta “la banca di chi non va in banca”, rilascia il postamat a milioni di italiani. Continua a custodire e attirare piccolo risparmio tipicamente paziente. È un network conosciuto e usato da tutte le famiglie italiane, da tutte le imprese, da tutti gli enti pubblici. È una rete ancora efficace per offrire anzitutto prodotti terziari di massa low-cost: non solo servizi finanziari, ma anche telefonia mobile.
È stato per questo che l’offerta retail (ai risparmiatori individuali) ha avuto successo: era stata prudentemente limitata a un terzo del 40% collocato ed è andata a riparto (molti richiedenti non hanno avuto neppure il lotto minimo da soli 3.375 euro). Avendo il prezzo galleggiato attorno al valore Ipo, molti hanno poi comprato il titolo sul mercato via via che i grandi investitori istituzionali hanno fatto defluire i loro acquisti dal Tesoro. Per lo Stato, del resto, non è importante solo l’incasso realizzato di 3,5 miliardi (a conferma degli impegni mantenuti sul fronte delle privatizzazioni), ma anche il mantenimento e l’incremento graduale del valore del titolo al listini: in vista dei collocamenti di future tranche.
Adesso però, ha strombazzato ieri Repubblica in prima pagina, il Governo starebbe pensando di utilizzare le Poste per salvare il Montepaschi. Il Tesoro, nelle ore ancora assonnate della domenica mattina è corso a smentire: troppo alto il rischio di un crollo in Borsa delle Poste lunedì mattina; troppo palesemente criminale e potenzialmente suicida la “narrazione” che le Poste abbiano attirato in tv il risparmio delle famiglie per riversarli a tradimento sui conti inariditi di una banca in dissesto. Federico Fubini, vicedirettore del Corriere della Sera vicinissimo al presidente della Bce Mario Draghi, si è visto costretto a buttar giù prima di pranzo un commento online il cui senso era più o meno: Mps-Poste è una follia. Draghi – per molte ragioni – è il primo a voler mettere il sicurezza il Monte: ma certamente non così.
La banca senese, in Borsa, è agli antipodi delle Poste: la sua performance di gennaio è stata -47% (-66% nell’ultimo anno). Dieci giorni fa ha perso in corso di seduta il 40%, toccando il minimo storico di 0,5 euro.Il mercato valuta la banca meno di un quarto del patrimonio netto, meno dell’ultimo aumento di capitale da 3 miliardi. Il cda del Monte ha approvato giovedì i conti al 31 dicembre, sottolineando il ritorno all’utile risicato. Ma il dato cruciale per il destino del Monte è oggi una cifra che sembrava ormai preistorica nella cassetta di attrezzi degli analisti finanziari: il livello dei depositi. Fino alla trimestrale di marzo non sarà disponibile nessun dato ufficiale. Ma già qualche giornale non ha avuto cautele nel sussurrare che molti depositanti del gruppo hanno preso a ritirare una parte delle loro giacenze (anche se non è l’unico caso in Italia): con approdo privilegiato proprio al più vicino sportello postale. È questo che spaventa le Borse e adesso – comprensibilmente – la Vigilanza Bce e italiana e il Governo.
Il Tesoro ha provato pochi giorni fa a forzare un intervento congiunto di Bpm e Ubi su Siena. Tentativo sfumato, a poche ore dal sostanziale insuccesso della trasferta di Pier Carlo Padoan a Bruxelles per la bad bank. Ora Bpm proverà a stringere con Banco Popolare, presumibilmente per costruire una zattera utile a salvare altre banche “naufraghe”. Il caso Mps resta tuttavia il più grave e il più urgente: ma Ubi da sola rifiuta di intervenire (resiste da tempo, anche quando Mps era in migliori condizioni). Il sistema bancario nazionale ha già subito salassi (e beffe) nell’occasione recente delle quattro risoluzioni. E ora che Banca Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti devono essere rivendute in fretta non è affatto escluso che tutto si concluda con una cervellotica partita di giro in perdita per l’intero sistema italiano.
L’ansia di Renzi e del presidente della Bce Mario Draghi è giustificata, comprensibile: e forse non sono queste ore concitate il momento giusto di discutere le corresponsabilità (almeno oggettive nell’acquisizione Antonveneta) dell’ex governatore della Banca d’Italia nel crak Mps; né la sempre più evidente impreparazione del Governo nel gestire delicate crisi bancarie, sia sul piano politico che amministrativo (la commissione d’inchiesta ventilata dallo stesso Renzi appare comunque un’opzione ormai doverosa). E se il premier in passato è stato sfiorato dalle ombre allungate dall’attivismo bancario dell’amico-finanziere Davide Serra sulle Popolari, oggi la sua frenesia sullo scacchiere creditizio appare sempre meno estranea ai grovigli politico-giudiziari attorno al dissesto Etruria.
Emergenze bancarie, pressioni politiche, angosce personali. L’idea di pagare il conto astronomico del crac Montepaschi con le Poste sembra in ogni caso al di là di ogni ragionevolezza: non solo di ogni etica pubblica. Sembra davvero partorita dalla fantasia febbrile di un Serra, in una nottata insonne. Significherebbe distruggere consapevolmente un ingente patrimonio di risparmi “che valgono doppio” perché incorporano anche uno ampio spread di fiducia sul mercato e di credibilità di uno Stato. Un patrimonio in parte pubblico in parte privato – quello del BancoPosta -, in parte fatto di titoli azionari recentemente ceduti al mercato e quotati in Borsa; in parte di risparmio affidato credendo alla parola dello Stato, peraltro ampiamente pubblicizzata con tecniche di marketing.
Perché chi ha portato i suoi risparmi da Mps alle Poste deve ritrovarsi nuovamente correntista di Mps? Perché chi ha investito sulle Poste – acquistando titoli da uno Stato che rimane azionista di controllo, vincolato però a un preciso piano industriale – deve ora ritrovarsi azionista di Mps perché lo Stato cambia le carte in tavola tre mesi dopo? E questo passo sarebbe compiuto solo per sotterrare una banca-città-partito divenuta una centrale di Chernobyl: sebbene i magistrati di quella città – che hanno indagato a fondo negli ultimi anni – abbiano rilevato come unica anomalia alcune creste microscopiche fatte da un gruppo di funzionari sulle operazioni in cambi.
Non sarebbe comunque la prima volta che il governo italiano è spinto dalla disperazione a essere tricky con il risparmio privato degli italiani: il caso più noto e clamoroso è stato il prelievo straordinario del 6 per mille sui conti correnti bancari, nel drammatico 1992. Molti italiani se lo ricordano ancora: ed era in ogni caso una manovra di bilancio, non una colletta obbligatoria per chiudere i buchi “privati” della banca del Pci, quotata in Borsa, ma tuttora sotto la salda influenza del partito del segretario-premier. A ogni buon conto il premier che allora mise le mani nelle tasche degli italiani – Giuliano Amato – non è mai diventato presidente della Repubblica, nonostante sia stato regolarmente candidato forte (ma prima di diventare giudice costituzionale è stato super-advisor della Deutsche Bank per l’Italia). Il ministro del Tesoro che firmò quel provvedimento, era un banchiere. Piero Barucci era stato presidente di Mps e dell’Abi, ed era stato chiamato in quel governo para-tecnico dalla poltrona di amministratore delegato del Credito italiano, in via di privatizzazione. Dopo “la notte del 6 per mille” è sparito da ogni scena pubblica. Amato e Barucci: due toscani, come Renzi.
Può darsi che, in un nuovo secolo, il premier riesca a commettere il delitto politico-finanziario perfetto. Noi speriamo di no, perché l’Italia confermerebbe – anche all’opinione pubblica europea – di essere uscita dalla civiltà euroepa. È comunque probabile che lo stesso Renzi sarebbe vittima eccellente del suo delitto. È vero che è appena stato vittima della “mala gestio” del caso Etruria: come mai il premier dal tocco magico, sembra aver perduto ogni lucidità politica? L’Italia – dallo scandalo Banca Romana in poi – se lo può permettere? Forse è ancora in tempo: per commissariare Mps e avviarlo eventualmente a risoluzione: com’è avvenuto per Banca Marche o Banca Etruria. Per farlo a pezzi e rivenderlo, cancellandolo finalmente dalla faccia del Paese: e pazienza se anche il Palio diventerà low-cost o dovrà essere appaltato a qualche emiro. I depositanti non correrrano rischi. Azionisti e portatori di obbligazioni subordinate invece li correrrano tutti: ma è il mercato (da più di un quarto si secolo) e poi anche loro potranno essere utilmente affidati al super-commissario anticorruzione Raffaele Cantone. Infine di certo, la Procura di Siena dovrebbe rimettersi al lavoro: magari con qualche ritardo e con qualche tirata d’orecchie da parte del Csm, com’è avvenuto per quella di Arezzo. Pazienza per l’ultimo “oro di Dongo” del Partito.