Le crisi bancarie costituiscono sempre per le autorità di supervisione un passaggio delicato. La Vigilanza è chiamata a ridurre per quanto possibile la probabilità che i dissesti si verifichino e a contenerne le ricadute. Questa responsabilità richiede di riflettere sempre sulle cause delle crisi, su come identificarle più rapidamente, su come migliorare gli interventi ispettivi e a distanza. Ma non va dimenticato un punto importante: gli ordinamenti e il modello di vigilanza prudenziale che si sono andati affermando a livello internazionale negli anni, sotto la spinta del Comitato di Basilea, giustamente valorizzano l’autonomia imprenditoriale delle banche. L’autorità di vigilanza non può sostituirsi sistematicamente nelle loro scelte gestionali.
Nel linguaggio atemporale delle Considerazioni finali da Luigi Einaudi in poi – zeppo di cifre e teoremi e povero di nomi e cognomi – il passaggio letto ieri dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco a pagina 18 delle sue Considerazioni 2016, rispetta certamente la tradizione. Ma pone anche un’affermazione cruciale, intellettualmente tutt’altro che onesta: non una semplice auto-assoluzione, come qualcuno ha lamentato a caldo.
Quello che conta, nel fraseggio, è il “ma” con cui Visco ha marcato il brusco cambio di stagione – di pratiche, regole, cultura del banking – che ha investito “negli anni” tutte le banche, anche quelle italiane. Negli ultimi trent’anni, ha ricordato Visco, le banche sono diventate “imprese” private orientate al profitto e “l’autorità di vigilanza” ha potuto sempre meno decidere per loro e su di loro. È stata una macro-scelta politica condivisa che ha accompagnato poderose spinte macro-economiche, quelle che fra l’altro hanno creato l’euro e lo hanno poi consegnato alla finanza globalizzata di mercato.
È avvenuto su questa piattaforma – ha sottolineato Visco altrove nelle Considerazioni di ieri – che “comportamenti imprudenti e talora fraudolenti da parte di amministratori e dirigenti” del settore creditizio abbiano sommato “in non pochi casi” i loro effetti a quelli di “una recessione lunga e profonda”: anzitutto nel generare dai portafogli creditizi dei gruppi italiani un’enorme valanga di sofferenze. Accusare la Banca d’Italia di aver azzerato, ad esempio, il valore delle azioni in tasca a 200mila investitori in Popolare di Vicenza o Veneto Banca oppure per i bond subordinati di Banca Etruria, è dunque strutturalmente scorretto. Certo non è immune da responsabilità, ma assieme e dopo molti altri attori cui la full immersion del sistema bancario italiano nella finanza di mercato aveva assegnato nuove responsabilità (compresi i piccoli risparmiatori).
È ovvio che di fronte alle emergenze economico-finanziarie non c’è tempo per le interrogazioni di più lungo periodo: però non ha sorpreso che – pressato su tutti i fronti (dalle forze politiche all’opinione pubblica) – il governatore abbia infine opposto a sua difesa la questione più radicale di tutte, quella del modello di capitalismo finanziario che hanno consapevolmente abbracciato gli Usa dopo Ronald Reagan e l’Europa di Maastricht.
Con l’Italia sempre a bordo: anzitutto quella dei Ciampi e dei Prodi e dei Monti, ma anche quella di Silvio Berlusconi. Soprattutto: l’Italia di quell’italiano atipico che è sempre stato Mario Draghi. Che resta – dall’Italia, all’Europa, al mondo – uno degli attori-“profeti” più rigorosi e indefessi riguardo il primato del mercato come auto-vigilante di una finanza stabile ed efficiente nel promuovere sviluppo.
Visco attacca dunque – almeno sul piano dell’analisi economica – il suo predecessore e oggi “superiore” alla Bce? Certamente si premura di dissimularlo quando si riferisce alle raccomandazioni del “Comitato di Basilea” – a lungo presieduto da Draghi. Ma proprio sottolineandolo rende davvero “finale” la sua “considerazione”: e le assegna un cognome. E non si tratta certo di una tenzone fra economisti.
Giusto ieri Piazza Affari ha atteso per tutto il giorno il comunicato di Veneto Banca sull’aumento di capitale da un milardo: un’operazione di mercato che non si farà come non si è fatta quella da 1,5 miliardi in cantiere per la Popolare di Vicenza. Due ricapitalizzazioni decise dalla Bce, che nei giorni scorsi è anche entrata a gamba tesa nella governance di una Popolare già trasformata in Spa e in attesa di quotarsi in Borsa. Francoforte ha sostanzialmente rifiutato il cambio di consiglio d’amministrazione legittimamente deciso in assemblea dai soci: alcuni fra i quali avevano espresso l’intenzione di reinvestire nella loro banca per adeguarne i parametri patrimoniali ai nuovi standard di vigilanza europea. Anche ad Asolo-Montebelluna interverrà dunque Atlante, veicolo finanziato – forzatamente e carissimamente – dalle altre banche italiane per evitare l’impatto delle nuove normative Ue sui dissesti bancari (bail-in).
Nel frattempo la più importante banca italiana, UniCredit, è in balìa del mercato (che ne ha dimezzato il valore in Borsa in in semestre) per le ripercussioni dell’Unione bancaria su Vicenza e poi direttamente sui propri conti. Sulle banche italiane non è più chiaro se e come “vigilino” il mercato e/o la supervisione microprudenziale, formalmente innervata nel mercato, sostanzialmente gestita da comitati tecnocratici internazonali. Visco ieri nelle sue Considerazioni “atemporali” non ha eluso una questione di strettissima temporalità. Forse avrebbe potuto farlo prima e meglio o avrebbe dovuto utilizzare meglio un 31 maggio che è apparso sempre più finale. Però le conseguenze delle considerazioni non le deve trarre lui o soltanto lui.