Viste le polemiche dopo il blitz sulle nomine ai Tg Rai, può darsi che per il governo Renzi non sia stato un male il rinvio a settembre dell’approvazione parlamentare del “decreto editoria”: con il quale palazzo Chigi – sempre giovedì scorso – si sarebbe fatto autorizzare a distribuire 100 milioni a giornali e giornalisti in crisi. Una gigantesca bombola d’ossigeno che Renzi resta ancora in predicato di azionare a favore dei grandi gruppi editoriali del Paese durante la campagna referendaria.
Poco importa se – ha scritto Pierluigi Battista sul Corriere della Sera – vi siano dubbi che “le mani sulla Rai” possano davvero orientare l’elettorato. È certo che per Urbano Cairo – proprio da giovedì neo-editore di Rcs – sarebbe stato importante avere certezze sull’arrivo dei fondi pubblici per l’editoria: anche il nuovo piano strategico del Corriere – non l’unico nella “media industry” italiana – conterrà esuberi vecchi e nuovi, “sofferenze” per il cui smaltimento il cosiddetto “decreto Lotti” sarà decisivo. I mezzi di sostegno raccolti da vari portafogli per razionalizzare “la promozione del pluralismo nella stampa” sono peraltro vincolati anche alla modifica per il futuro della legge 416 sui prepensionamenti nel settore.
Il provvedimento era atteso al voto in Senato prima dei 40 giorni di pausa estiva, ma è stato vittima del cambiamento improvviso dell’ordine del giorno deciso dal presidente Pietro Grasso per il voto contrastato sull’autorizzazione all’arresto del senatore Antonio Caridi. Così del decreto editoria si riparlerà come minimo il 13 settembre. Può darsi che nulla cambi nella sostanza, anzi è probabile che sarà così. Certamente 40 giorni di ritardo non sono pochi, anche perché le scadenze problematiche incalzano nell’editoria giornalistica nazionale sulla strada di una faticosa ristrutturazione a più dimensioni.
Il 30 settembre, teoricamente, avrà termine un’altra dilazione: quella che Fieg e Fnsi si sono dati per il rinnovo del contratto nazionale del lavoro giornalistico. La trattativa è stata prorogata dopo una disdetta formale del contratto da parte degli editori. Sempre nei giorni scorsi, bozze di accordo in discussione sono state fatte filtrare da alcune componenti sindacali, preoccupate per una forte rottura di continuità in vista per profili, retribuzioni, regole del gioco del lavoro giornalistico.
Da un lato sul tavolo sarebbe in discussione l’introduzione contrattuale di una serie di figure giornalistiche generate dal mondo digitale. Non è difficile immaginare che i livelli di compenso individuati per questa nuova griglia siano “lower cost” rispetto a quelli tradizionali: di qui le prime polemiche di una parte della Fnsi. Ma è altrettanto chiaro che il giornalismo del presente e del futuro è quello digitale e che il costo del lavoro giornalistico finora definito dal contratto “old” è ormai fuori mercato: lo dicono i conti in rosso profondo e prolungato di molti grandi gruppi editoriali. Viceversa solo la fissazione di nuove soglie retributive d’ingresso al lavoro giornalistico promette di rilanciare l’occupazione, soprattutto quella dei giovani giornalisti. Analogamente, le bozze di contratto circolate sembrano attente all’evoluzione del business editoriale, dando più spazio alle figure flessibili di collaborazione esterna, superando le rigidità “novecentesche”, “fordiste” tuttora presenti nel contratto nazionale.
Su un altro versante, il nuovo contratto difficilmente potrà eludere la “rottamazione” di molto babyboomers del giornalismo: “over 50” entrati nei grandi giornali tradizionali durante il rilancio degli anni ‘80. Sono oggi centinaia di giornalisti con livelli retributivi gonfiati dall’anzianità, anche se sempre meno collegati alla produttività tecnologica necessaria nel business editoriale del ventunesimo secolo. Che fare con loro? Il pensionamento anticipato non sarà possibile per tutti, anzi. Non è solo il decreto Lotti a prospettare il superamento della logica del “prepensionamento”. Anche la riforma dell’Inpgi – l’ente pensionistico di categoria – si muoverà in direzione della cancellazione di ogni anticipo o facilitazione: se non quelle che saranno previste in via generale dall’Inps.
Dopo la riforma Fornero i requisiti standard per il pensionamento sono 66 anni di età e “over 40” di contribuzione. L’ente dei giornalisti è fermo a 62/35. L’ autoriforma varata l’anno scorso prevedeva la cancellazione progressiva del pensionamento di anzianità (a partire da 57 anni) e l’approdo graduale a 62/40. Ma il ministero del Welfare – che vigila sulle casse private – ha bocciato la tabella di marcia, sollecitando di fatto l’Inpgi ad allinearsi al regime Fornero, anche in chiave di sostenibilità finanziaria a medio termine. Sarà comunque un tema su cui il vertice Inpgi sarà chiamato a pronunciarsi alla ripresa di settembre: per garantire un tendenziale avvio della “riforma-bis” all’inizio del 2017.
È probabile che editori e giornalisti terranno duro sul mantenimento di una clausola di salvaguardia che consenta almeno per un anno di trasbordare più giornalisti possibile a forme di pensionamento anticipato, anche se tendenzialmente a condizioni più penalizzanti di quelle previste. Nel frattempo il contratto nazionale sembra disegnare per altri “over 50” un “percorso B”, altrettanto poco gradevole: la trasformazione dei cosiddetti rapporti “articolo 1” in “articolo 2”. Fuori di tecnicismo contrattuale: la possibilità – da parte di editori e direttori – di tagliare i compensi e cambiare le mansioni per i giornalisti con età avanzata e qualifica elevata, che non potranno essere sbarcati e dovranno rimanere in redazione per più anni di quelli finora immaginabili.
L’unico dato certo è che il problema del “pluralismo della stampa in Italia” non è la rimozione dorata da una direzione Rai della figlia di Enrico Berlinguer, per oltre 15 anni segretario del Pci. Nel ventesimo secolo, s’intende.