Un’accusa senza precedenti: Netanyahu ha accusato i capi dell’IDF di “tentativo di colpo di Stato” per la loro contrarietà all’occupazione di Gaza

Il primo ministro israeliano, forse per la gravità delle accuse che si accingeva ad avanzare, ha preferito affidare al figlio Yair Netanyahu di spiegare, con poche parole, quello che è accaduto 24 ore fa in Israele, sul filo che unisce Tel Aviv, sede del ministero della Difesa, e Gerusalemme, sede dell’ufficio del Primo ministro.



“Ribellione” e “tentativo di colpo di Stato”, così il figlio di Netanyahu ha definito sui social il comportamento di Eyal Zamir, il capo delle forze armate israeliane (IDF), di fronte agli ordini impartiti dal capo di governo.

Benjamin Netanyahu, da parte sua, aveva già annunciato che il suo governo aveva deciso per l’occupazione totale e immediata di Gaza, in accordo con il presidente americano Trump (aggiungevano giornalisti israeliani “ben informati”).



Allo stesso tempo, Netanyahu affermava, lasciando tutti sconcertati, che se il capo delle forze armate non fosse stato d’accordo avrebbe dovuto dimettersi. Già queste parole facevano intendere la gravità dei dissensi già emersi.

Ieri sera, una riunione ristretta dei ministri israeliani con il capo delle forze armate, il cosiddetto Gabinetto di sicurezza, sanciva una riconciliazione più formale che sostanziale. A leggere con attenzione lo stringato comunicato fornito ai giornalisti, il capo delle forze armate ha presentato, innanzitutto, i “suoi” piani militari per Gaza e i ministri lo hanno ascoltato.



Secondo punto: l’esercito israeliano, cioè lo stesso generale Zamir, si è dichiarato pronto a dare corso a “qualsiasi” decisione il Gabinetto di sicurezza vorrà prendere. Compresa, verrebbe da aggiungere, l’occupazione totale e permanente di Gaza che Netanyahu aveva già detto di aver assunta.

Benjamin Netanyahu davanti alle rovine causate da uno strike iraniano (Ansa)

Si torna dunque a discutere, a Tel Aviv e a Gerusalemme, sulle scelte militari israeliane riguardanti il futuro di Gaza, mentre alla popolazione palestinese si concede nel frattempo un minimo di aiuti umanitari: lanciati con i paracaduti dai “donors” o trasportati con i camion, ma non più di 100, rispetto ai 600 necessari), tutto questo per non rendere ancor più incalzante, agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, un genocidio già avviato.

Le fonti vicine ai vertici militari israeliani rilanciano la necessità di non procedere all’occupazione permanente e totale di Gaza. Viene giustamente da chiedere: quali le ragioni?

La prima viene detta e ripetuta da mesi e viene rilanciata anche in queste ore nella clamorosa lettera a Trump di 600 ex funzionari degli organi di sicurezza israeliani: Hamas, dicono, non è più un pericolo per Israele, la guerra può finire e si può ottenere il rilascio degli ostaggi israeliani con un accordo.

L’altro motivo, invece, non viene esplicitato ma è ugualmente importante per i militari. Loro, i militari israeliani, non vogliono trovarsi nel pantano di un’occupazione permanente di Gaza. Sarebbero esposti ad una guerriglia crescente con il passare degli anni, se a Gaza rimanesse la sua popolazione.

Ecco, dunque, le richieste “collegate”: spostamento della popolazione nei campi di “concentramento e transito” a ridosso del confine con l’Egitto e poi “emigrazione volontaria”.

Le proteste internazionali sembrano capaci di bloccare il corso di questa pulizia etnica, la cui strada è lastricata, già ora, di altre centinaia di morti al giorno. Quindi ecco la paura dei vertici militari di occupare Gaza, con la sua popolazione all’interno, e trovarsi in un nuovo Vietnam, mediorientale, dopo quello sperimentato proprio a Gaza prima del 2005. Quindi, la proposta è di spezzettare Gaza e di controllarla in modo ancor più stringente dall’esterno.

Una richiesta che Netanyahu e i ministri del suo governo giudicano politicamente non gestibile sul lungo periodo, anche perché farebbe perdere, dicono, l’attuale consenso americano.

Tuttavia, la richiesta di dimissioni e le accuse di “colpo di Stato” lanciate al generale Eyal Zamir e il dimissionamento, nello stesso giorno, della procuratrice generale dello Stato Baharav-Miara (bloccato dopo appena un’ora dalla Corte Suprema) gettano una fosca luce su chi veramente pensa di allargare il suo potere nello Stato di Israele.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI