Docente augura la morte alla figlia della Meloni, insulti osceni alla figlia Salvini. L'odio che sta superando ogni limite ha una legittimazione politica
È difficile trovare parole sufficientemente dure per condannare quanto accaduto: un docente, una figura che dovrebbe rappresentare l’etica civile e la responsabilità educativa, ha augurato pubblicamente la morte a una bambina di appena otto anni, Ginevra, figlia della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Un gesto di una gravità inaudita, che rivela un inquietante degrado morale, ancora più allarmante perché non isolato: c’è chi lo ha giustificato, chi lo ha minimizzato, chi – pur senza approvare – ha detto di comprenderne le ragioni.
Ma l’odio non si è fermato lì. Nelle stesse ore è emersa un’altra vicenda di analoga violenza verbale e disumanità: un utente ha creato un account su X (ex Twitter) con l’esplicito scopo di insultare e umiliare pubblicamente la figlia di Matteo Salvini, Mirta, di soli 12 anni. La bambina è stata definita in modo osceno, infamante, in un profilo che unisce pornografia, insulti politici e riferimenti pedopornografici. Un attacco che travalica ogni confine della civiltà e dovrebbe allarmare qualunque coscienza democratica, indipendentemente dal colore politico.
Che simili espressioni d’odio possano provenire da educatori o attivisti politici lascia sgomenti. Ma che trovino anche sponde di legittimazione nel dibattito pubblico è il vero segnale d’allarme. Il clima avvelenato in cui si è immerso parte del confronto politico e culturale negli ultimi anni ha prodotto un terreno fertile per queste derive.
Si è arrivati al punto in cui, pur di opporsi a chi viene percepito come “fascista”, ci si ritiene autorizzati a oltrepassare ogni limite umano e civile. L’aberrazione di augurare la morte a una bambina o insultare sessualmente un’adolescente diventa, in questa logica, una forma paradossale di “resistenza”.
La colpa di tutto ciò, però, non può essere semplicemente attribuita a singoli soggetti. C’è una responsabilità culturale più ampia che affonda le radici in una certa retorica militante, nella convinzione – radicata in una parte della sinistra – di possedere una superiorità morale che giustificherebbe ogni mezzo in nome del fine. Chiunque venga etichettato come “di destra”, o ancora peggio come “fascista”, smette di essere una persona: diventa un nemico assoluto, un bersaglio da colpire anche sul piano personale, familiare, coinvolgendo persino i bambini.
Questa deriva non è nuova, ma sta toccando livelli allarmanti. Non è più solo polemica politica: è disumanizzazione. E, paradossalmente, proprio coloro che accusano gli altri di “fascismo” sembrano assumerne i metodi: semplificazione ideologica, demonizzazione dell’avversario, intolleranza verso il dissenso.
La sinistra – o almeno una parte di essa – continua da decenni a brandire lo spauracchio del fascismo come unica arma retorica. Ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti, in Italia come negli Stati Uniti e in altri Paesi europei, dove l’ossessione per la “destra estrema” ha prodotto più fratture che consensi.
Eppure, questo meccanismo continua a essere ripetuto, come se questi rappresentanti politici e parte dei media vivessero in un universo parallelo dove ogni sconfitta elettorale è attribuibile non agli errori propri, ma a un popolo improvvisamente “fascistizzato”.
Come ha giustamente osservato il filosofo Massimo Cacciari, il fascismo – quello storico, quello reale – non esiste più e non può più tornare, almeno non nella forma che ha segnato tragicamente il Novecento europeo. Oggi siamo in un’altra epoca, con problemi diversi e strumenti democratici consolidati. Ma per comprenderlo serve una reale capacità critica, serve saper capire e interpretare la storia, non solo conoscerla in maniera stereotipata.
Al tempo del fascismo, l’Europa era un continente devastato dalla Grande Guerra, attraversato da crisi economiche e tensioni sociali. I governi autoritari non erano un’eccezione ma la norma in molte nazioni: la Germania era sprofondata nel nazismo, la Spagna sotto la dittatura di Franco, il Portogallo stretto nel regime salazarista, la Grecia dominata dalla dittatura di Metaxas, la Russia controllata dal totalitarismo stalinista. La democrazia era fragile, minoritaria, e spesso percepita come inefficace di fronte al caos del dopoguerra.
Oggi viviamo in una società complessa ma libera, dove le istituzioni democratiche sono consolidate e la pluralità delle idee dovrebbe rappresentare una ricchezza, non un pretesto per alimentare l’odio. Continuare a interpretare il presente con le lenti deformanti del passato non aiuta a difendere la democrazia: al contrario, la indebolisce, la riduce a caricatura, impedendo un’analisi lucida dei reali problemi contemporanei.
L’augurio di morte a un bambino o il bullismo offensivo nei confronti di una minorenne non sono mai “provocazioni”, non sono “satira”, non sono “antifascismo”. Sono solo odio, puro e semplice. E se una società non sa più riconoscere questa evidenza, allora il problema non è solo di chi l’ha espresso. È di tutti noi.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
