Prima si comincia, poi si inaugura: il cliché organizzativo da tempo impone ai Cinque Cerchi questo strano rito cronologico, peraltro mai così triste come quest’anno: senza pubblico e senza il pathos di chi ospita. Mai vista prima d’ora una Olimpiade così. I giapponesi sono proprio sfortunati. Le dovevano organizzare nel 1940, ma la guerra fece saltare tutto, così come finì a gambe all’aria quella dello scorso anno, rimandata a ora e diventata indigesta alla maggioranza di loro. La dovranno subire, non perché ora ci siano condizioni più favorevoli rispetto a un anno fa, ma semplicemente perché senza i soldi delle tv il carrozzone salta per aria e Dio solo sa quanto costa mantenerlo.
Pure con le tristi restrizioni imposte dal Covid, quella che inizia ufficialmente stasera resta pur sempre una bella provocazione, anche se apparentemente contraddittoria: proporre l’agonismo come motore di integrazione tra popoli diversi. Bella sfida!
È vero: se guardi la fauna umana che la organizza e la dirige, ti scappa subito la poesia. Una banda di arrivisti, spesso corrotti, che spingono lo sport alla deriva dell’autoreferenzialità e della medaglite a ogni costo, coi governi quasi tutti a sgomitare per il narcisismo della geopolitica, che tanti disastri ha provocato e continua a provocare, anche allo sport. È da ingenui – ahimè – pensare che ci siano le premesse per una competizione libera da imbrogli, da doping, da esenzioni terapeutiche taroccate, da giurie super partes. Ne sappiamo qualcosa noi italiani, che non possiamo schierare un atleta a questa Olimpiade (e neppure alla precedente) perché gli hanno manipolato l’urina per farlo risultare positivo al doping.
Di fronte a questa porcata e a tutti i reati consumati da uomini Wada e World Athletics, denunciati dal giudice di Bolzano Walter Pelino, se avesse avuto dirigenti sportivi dalla schiena dritta, l’Italia avrebbe dovuto proporre provocatoriamente al Cio come portabandiera l’allenatore di Alex Schwazer: Sandro Donati.
“Il più grande merito di un tecnico non è accompagnare la crescita della performance del suo assistito, ma renderlo umanamente più maturo e sicuro di sé”, una delle sue frasi più belle. Ma forse i primi a dissociarsi da questa provocazione sarebbero stati una buona parte degli atleti in tricolore, silenti e non solidali in questi anni verso la battaglia condotta in solitario dal marciatore e dal suo coach e che intendeva tutelare anche ciascuno di loro di fronte all’arbitrarietà del sistema sportivo. Sandro Donati poi non fa neppure parte della delegazione azzurra a Tokyo, sebbene sia responsabile delle metodologie di allenamento delle discipline sportive del Coni. Si consolerà col fatto che il suo libro da poco uscito (I signori del doping, più di 400 pagine di documentata denuncia delle canagliate subite per 5 anni da lui e dal suo atleta) viaggia al primo posto tra le pubblicazioni sportive vendute via Amazon. Non a caso i galoppini delle suddette istituzioni corrotte promettono sconti a chi compra le bislacche veline raffazzonate dagli avvocati e spacciate per controinformazione.
Con tutte queste premesse sembrerebbe improbabile che negli anfiteatri di gara da oggi in poi possa accadere qualcosa di diverso dall’arraffa medaglie. E invece la storia ci insegna che nelle pieghe di questa kermesse bombardata dalle miserie umane sono sempre emersi episodi imprevedibili e profetici, a volte misconosciuti, altre no, che hanno segnato la direzione del più in alto e dell’insieme che compaiono nel motto olimpico, anche nei periodi più bui come ad esempio quelli dei Giochi nazisti del ’36. Non hanno avuto bisogno di alzare i pugni al cielo sul podio come gli afroamericani di Messico ’68 o di inginocchiarsi come le calciatrici dell’altro giorno, eppure quel che c’è stato tra il nero Jesse Owens e l’ariano Lutz Long lo ricordiamo ancora bene oggi, a distanza di 85 anni!
Come dicono a Milano, da oggi conviene fa balà l’oeucc…
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