L’oro depositato in Bankitalia appartiene allo Stato, cioè agli italiani. Il governo va avanti e fa bene, ma la norma, spiega il giurista, va scritta meglio

Nuovi sviluppi nella complessa partita delle riserve auree. Il governo Meloni, per nulla condizionato dal parere della BCE chiesto dal ministero dell’Economia, fa “suo” l’emendamento Malan e gli apre una corsia preferenziale in legge di bilancio, secondo quanto riportato ieri da Repubblica. Ora la proposta avrebbe il pieno sostegno anche della Lega.



Nel suo parere del 2 dicembre la BCE ha di fatto dato parere negativo alla norma della maggioranza: “non è chiaro quale sia la concreta finalità della disposizione” (punto 2.11), che nel frattempo era stata modificata, perché dopo il fuoco di sbarramento mediatico piovuto sull’emendamento (“Le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono allo Stato, in nome del popolo italiano”) il governo aveva tolto il riferimento allo “Stato”.



Che la proprietà delle riserve auree sia questione importantissima lo dimostra la levata di scudi arrivata dagli ambienti pro-euro e dalla stampa mainstream. Si sono lette espressioni come “violazione dei trattati europei”, “scippo”, “lo Stato non può azzardarsi a dire alla Banca d’Italia cosa fare di quell’oro”, e via dicendo, il tutto per dire che l’oro non è degli italiani.

Per Mario Esposito, ordinario di diritto costituzionale nell’Università telematica Pegaso e docente alla Luiss di Roma, l’oro, al contrario, è degli italiani e non di altri, Bankitalia lo detiene e lo gestisce. Ma regna una commedia degli equivoci, spiega il giurista, dovuta – oltre alle rispettive finalità politiche – alla confusione imperante sulla materia. Di conseguenza è importantissimo che il governa scriva una norma chiara.



Professore, prendiamo i riferimenti al TFUE e al SEBC contenuti nel parere della BCE. E cominciamo da quella “competenza” della Banca centrale europea dichiarata al secondo capoverso, per esempio. “La BCE è competente a formulare un parere in virtù…” eccetera.

Ci troviamo di fronte ad un paradosso italiano, se si pensa che norme analoghe a quella che si vorrebbe introdurre sono pacificamente in vigore in altri grandi Paesi europei. Fanno espresso riferimento allo Stato, evitando però formule che offrono il fianco a facili eccezioni di vana magniloquenza.

Immagino si riferisca al “popolo italiano” dell’emendamento Malan. Un esempio di quelle norme?

La Francia, tanto per dirne una: basta dare un’occhiata allo Statut juridique de la Banque de France.

Torniamo al TFUE.

In nessun luogo le norme dei trattati dell’UE fanno riferimento alle riserve auree. La BCE gestisce le riserve in valuta ad essa conferite – alle quali corrisponde un credito delle banche centrali nazionali conferenti – e non quelle in oro, come già abbiamo avuto modo di spiegare su queste pagine. Tuttavia in proposito c’è un singolare indirizzo della BCE che risale al 3 novembre 1998, secondo il quale il riferimento alla valuta deve intendersi comprensivo dell’oro.

Resta il fatto che sull’iniziativa italiana la BCE si è pronunciata senza indugio. Le sue osservazioni?

La BCE ha reso un parere che si limita ad un garbato invito a riconsiderare la proposta emendativa, poiché non le risulta chiaro quale ne sia la finalità. Il parere è un atto richiesto dal MEF, e quindi dal governo; che dunque è apparso quasi disallineato rispetto alla sua maggioranza parlamentare. Evidentemente ha ritenuto che l’emendamento incidesse su una materia di competenza della BCE, apportando alterazioni alle funzioni della Banca d’Italia nel contesto del SEBC. E in proposito si profila un primo consistente dubbio.

Su quali basi?

La BCE non ha, né vuole avere competenze in materia di regime di proprietà vigente negli Stati membri, anche per quanto attiene ovviamente alle riserve auree. Basta leggere l’art. 345 TFUE.

Resta il fatto che contro l’iniziativa del governo si è sollevato un muro mediatico che non si era mai visto.

La richiesta di parere, e sarebbe molto interessante leggerne la formulazione,  potrebbe aver indotto l’opinione che la volontà dei proponenti fosse intesa a consentire allo Stato di disporre delle riserve auree liberamente, anche per fini contingenti e diversi da quelli pubblici di garanzia in senso ampio. Ma così non è, anche mettendo da parte la confezione dell’emendamento, certamente perfettibile.

Qui tocchiamo il punto della questione: quali sono le ragioni vere sottese all’ ento? 

Si ha ragione di supporre, e di auspicare, che l’obiettivo perseguito sia quello di vincolare la gestione delle riserve all’interesse pubblico statuale, che comprende – al momento – anche la partecipazione all’euro.

“Al momento” è un’espressione che i difensori d’ufficio della BCE non accetterebbero. L’euro non si discute. Una valanga di articoli è stata scritta per questo.  

Vadano sul sito istituzionale della Bundesbank a leggersi ciò che si dice della funzione di garanzia dell’oro nazionale, anche dopo l’introduzione della moneta unica e del SEBC.

Il punto 2.8 sembra escludere la legittimità di un trasferimento delle riserve auree dallo stato patrimoniale della Banca d’Italia allo Stato. Qui i media hanno fatto furore, dicendo che la BCE cassa una volta per tutte la pulsione allo “scippo” (cit.) attribuita al governo italiano. Come commenta?

Qui si annida un equivoco figlio del peculiare svolgimento delle vicende che hanno riguardato la Banca d’Italia tra la fine del secolo scorso e i primi quindici anni di questo. A partire dagli anni 90, quando si ebbe la privatizzazione delle casse di risparmio, degli istituti di credito di diritto pubblico e delle banche di interesse nazionale, ai quali, insieme con gli istituti di assicurazione e con quelli di previdenza, era riservata l’appartenenza delle quote di partecipazione al capitale di Bankitalia – rimasto significativamente invariato, salva la traduzione in euro, dal 1936 al 2013 – tali quote, invece di essere riconsegnate allo Stato, rimasero nel patrimonio delle società per azioni che avevano preso il posto degli enti citati. Una situazione contraria all’art. 20 R.d.l. n. 375/1936, dunque illegittima, ma che è perdurata sino al 2013, quando un decreto legge del Governo Letta, di contro ad un parere della BCE, abrogò la norma del 1936, senza preoccuparsi in alcun modo delle conseguenze. Che riguardavano anche le riserve iscritte nel conto patrimoniale della Banca d’Italia.

Questo che cosa ha significato?

È stata una scelta di dubbia legittimità costituzionale e comunitaria che continua a porre una grave ipoteca sulla appartenenza – che è termine tecnico, con buona pace di qualche approssimazione giornalistica – delle riserve di Palazzo Koch, considerata la trasferibilità delle quote della Banca d’Italia, già iscritte nel patrimonio dei quotisti per un valore ragguagliato anche alle riserve medesime.

Quali sono le sue conclusioni?

Ora, l’emendamento Malan, destinato, secondo quanto si apprende dai giornali, ad una corsia preferenziale per diretto interessamento della Presidenza del Consiglio dei ministri, non interferisce affatto né con l’iscrizione delle riserve nel conto patrimoniale della Banca d’Italia, né, tantomeno, con l’indipendenza tecnica di questa. Si dice infatti espressamente nell’emendamento che spetta a Via Nazionale la gestione, oltre che la detenzione, dell’oro: una formula che è utilizzata ad esempio dalla legislazione francese, che prevede l’iscrizione nello stato patrimoniale della Banque de France nei termini previsti da una convenzione che essa deve stipulare con lo Stato.

Dov’è allora lo scandalo?

Tutta questa commedia degli equivoci è indotta dal mancato chiarimento, forse anche da parte di chi ha presentato l’emendamento, del punto fondamentale: e cioè che la norma che si propone di approvare andrebbe a consolidare quelle rassicurazioni che nel 2013, con enfasi almeno pari a quella odierna, provenivano dal Governo di allora e dalla stessa Banca d’Italia a fronte delle preoccupazioni, espresse al tempo della conversione in legge (5/2014) del d.l. 133/2013, circa il rischio che l’ingresso dei privati nel capitale di Bankitalia incidesse anche sulla proprietà delle riserve e sul loro status giuridico.

D’altra parte, laddove si è scelto, diversamente dalla Francia e dal Belgio, di stabilire con chiarezza inequivocabile che le riserve auree appartengono allo Stato, come ad esempio in Germania, il capitale della Bundesbank, che è espressamente definita organo amministrativo, è di proprietà del Bund, ossia dello Stato federale.

Dunque stiamo parlando di un aspetto che andrebbe chiarito al più presto. Altrimenti? 

Altrimenti è legittimo il dubbio che l’opposizione interna, quella del MEF per intenderci, all’emendamento sia un altro episodio nostrano di uso “alternativo” del diritto europeo, i cui beneficiari sono oggettivamente i quotisti privati della Banca d’Italia.

Lei ci ha appena detto più volte che la norma va formulata con maggiore precisione. In che modo?

Ogni obiezione potrebbe essere superata da una formulazione che attenesse direttamente allo statuto giuridico delle riserve auree, definito in termini pubblicistici, ossia di demanio o di patrimonio indisponibile, in modo tale che chiunque ne sia titolare non possa distoglierle da un uso di pubblico interesse. Fermo restando che la concreta fissazione di questo pubblico interesse resta sempre di competenza dello Stato, a titolo di sovranità.

(Federico Ferraù)

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