I Paesi arabi propongono un piano per il futuro di Gaza. Israele lo boccia: dopo Ramadan e Pasqua ebraica si tornerà a combattere

Al Cairo c’erano Qatar, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e il segretario generale dell’Onu, Guterres. Oltre, naturalmente, all’Egitto. Sono i Paesi che hanno ideato e proposto un piano arabo per Gaza, alternativo alla “riviera del Medio Oriente” di Trump: prevede un budget da 53 miliardi di dollari con una prima fase di sei mesi gestita da una sorta di governo tecnico formato da palestinesi che non hanno legami con Hamas, Fatah o altri gruppi e un ritorno, in seguito, dell’Autorità nazionale palestinese (ANP). Prevede case, zone agricole, strutture commerciali, edifici per le istituzioni locali, ma anche porto ed aeroporto.



La sua realizzazione, però, spiega Ugo Tramballi, editorialista de “Il Sole 24 Ore” e consigliere scientifico dell’ISPI, è un problema tutto politico: riguarda il ruolo di Hamas, che non vuole smilitarizzarsi né abbandonare il terreno, ma anche il rifiuto di Israele di affidarsi comunque ai palestinesi per gestire Gaza. Insomma, siamo ancora al muro contro muro, tanto che, finito il Ramadan e celebrata la Pasqua ebraica, la possibilità che si torni alla guerra non è da escludere. A meno che intervenga Trump



, l’unico che può convincere Netanyahu a evitare altri combattimenti, magari per tenersi buoni i sauditi, con i quali il presidente americano vuole fare affari. Gli USA, intanto, starebbero trattando direttamente con Hamas per liberare gli ostaggi americani, parlando però anche della possibile fine della guerra.

I Paesi arabi hanno definito un piano per il futuro di Gaza alternativo alla “riviera” di Trump. Può essere una base di discussione per stabilire finalmente cosa ne sarà della Striscia?

Il piano arabo è quello più giusto, fatto dagli arabi per gli arabi, meglio di quello di Trump, che è folle, oltre che imperialistico. Gli arabi, inoltre, hanno più di una motivazione per ricostruire Gaza, non con i grattacieli, come ipotizzato dal presidente USA, ma con soluzioni che rimettano in sesto il territorio riportandolo a prima del conflitto. Per realizzare il piano il problema non sono i soldi, anche perché la ricostruzione dopo una guerra è sempre un grande business: i finanziatori non mancheranno. C’è, invece, un problema politico.



Hamas ha già detto che il piano le sta bene, ma proprio il ruolo dell’organizzazione è uno dei nodi che non sono stati ancora sciolti. È questo il primo ostacolo da superare?

Hamas non si oppone alla presenza di un’autorità indipendente, a una gestione della ricostruzione da parte di tecnici palestinesi, però vuole restare, il che è tipico di tutti i movimenti terroristici o di guerriglia. Anche prima della guerra controllava Gaza, ma non la governava: arrivavano i soldi attraverso il Qatar, i soldi internazionali, e loro li spendevano per costruire infrastrutture militari e tunnel, ma a gestire la città, i ministeri, gli stipendi ai dipendenti pubblici pensava Ramallah attraverso gli aiuti internazionali. Hamas resta lì, non ha nessuna intenzione di mollare la presa militare.

Il piano arabo, però, oltre ai tecnici, parla di elezioni e di gestione futura dell’area da parte dell’ANP. Di Hamas non c’è traccia.

Di sicuro Hamas non la vuole nessuno: né gli americani, né gli europei, né gli israeliani. Non la vogliono nemmeno quelli che devono metterci i soldi per ricostruire Gaza. Non lo faranno mai finché Hamas non viene smilitarizzata. L’organizzazione palestinese dovrebbe seguire lo stesso percorso di HTS e Al Sharaa, leader della Siria: dieci anni fa era dell’ISIS, oggi è un moderato che vuole salvare il Paese. Potrebbe essere un precedente molto interessante, molto utile per il mondo arabo.

Se Hamas si smilitarizzasse, le cose cambierebbero? Il piano avrebbe più probabilità di attuazione?

C’è un altro elemento da tenere in considerazione: gli israeliani non vogliono vedere un’autorità palestinese governare a Gaza. Secondo il piano arabo, i lavori della ricostruzione li dirigerà un governo di tecnici, non di politici, anche se l’ANP avrebbe voluto gestire lei questa fase. Israele, tuttavia, vuole impedire che possa nascere una qualunque autorità palestinese dentro Gaza, altrimenti il governo israeliano cade. Non vuole che nasca uno Stato palestinese, perché il programma arabo della ricostruzione comprende anche la ricostruzione politica.

Se invece Israele cambiasse governo, si potrebbe pensare a uno Stato palestinese?

Lo Stato palestinese non lo vuole questo governo di estremisti, nazionalisti e religiosi, ma neanche gli altri. Lapid, il leader centrista, ha proposto addirittura di affidare Gaza per dieci anni all’Egitto. Per gli israeliani non deve nascere uno Stato palestinese. La maggior parte degli israeliani non ne vuole sapere: se si va a elezioni e se i centristi, che ora si stanno riorganizzando, si presentano con un programma elettorale che prevede la ripresa della trattativa sullo Stato palestinese, di fronte a Netanyahu perdono di sicuro. Ma i sauditi e gli egiziani pongono proprio questa condizione: che Israele inizi un negoziato per la nascita di uno Stato palestinese.

Se il piano arabo non servirà a sbloccare la situazione, cosa succederà adesso?

Forse sono troppo pessimista, ma penso che la tregua verrà prolungata fino a quando finirà (fine marzo) il Ramadan. Poi comincerà la Pasqua ebraica, che dura una settimana. Dopodiché la guerra riprenderà, a meno che Trump non si esprima facendo una proposta. Per ora gli israeliani vogliono andare avanti con il cessate il fuoco per liberare altri ostaggi, ma Hamas non li lascerà andare tutti, perché non avrebbe più armi negoziali. Consegnerà i cadaveri e si terrà i vivi. Poi, appunto, ricominceranno i combattimenti. Oppure il presidente americano dirà qualcosa di importante, per esempio sulla West Bank, dove il massacro continua.

Il piano elaborato al Cairo prevede anche una forza internazionale in Cisgiordania. Il futuro di Gaza per gli arabi non può essere disgiunto da quello della West Bank?

Per quanto la geografia le divida, sono parti della stessa ipotetica nazione. Non si può pensare di fare la pace ignorando quello che sta accadendo in Cisgiordania.

Cosa potrebbe proporre Trump per cambiare le carte in tavola?

Potrebbe dire che gli israeliani possono annettersi la West Bank, oppure che non devono farlo perché lui punta a fare affari con l’Arabia Saudita. Non scommetterei su una decisione di Trump filo-israeliana, ma neanche su una scelta anti-israeliana. Tutto è aperto.

Alla fine, vale quello che si diceva anche con Biden: solo gli USA possono trovare una soluzione?

L’unico che potrebbe sbloccare la situazione sarebbe Trump, sebbene faccia sempre un po’ paura pensare a quello che può proporre o fare. Il discorso al Congresso ha dimostrato che va avanti nel suo delirio imperialistico, quello che ha portato gli americani a cacciare i messicani dalla zona che va dalla California all’Arizona, al Texas, o che ha prodotto il massacro degli indiani per la conquista dell’Ovest. La mentalità è sempre quella. Anche per lui, comunque, sarà difficile trovare un’idea che faccia quadrare le cose. Al netto delle responsabilità di israeliani e palestinesi, se finora non c’è stata una soluzione del conflitto è colpa degli americani, che non sono mai stati mediatori equidistanti, prendendo sempre le parti di Israele.

(Paolo Rossetti)

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