Netanyahu ha accettato il piano di Trump per Gaza: ora la proposta è al vaglio di Hamas. Se Hamas non accetterà, Trump sosterrà la guerra di Israele
Non è più la guerra, ma non è ancora la pace. Questo è lo stretto sentiero, sul ciglio dell’abisso in cui versa Gaza, che Trump ha imposto a Netanyahu di percorrere e vorrebbe ora imporre ad Hamas.
Il vestito che Netanyahu ha dovuto indossare è stato allargato, per rendergli più comodo il percorso: ritiro graduale, molto graduale, delle sue truppe, nessun ritorno immediato dell’Autorità nazionale palestinese (ANP) a Gaza, il riconoscimento dello Stato palestinese compiuto in queste settimane da molti Stati definito da Trump “stupido”.
Verso Hamas, il presidente americano ha usato il bastone e la carota, nel momento che gli ha posto davanti il suo piano: innanzitutto gli ha offerto la liberazione di 250 prigionieri palestinesi in cambio del rilascio degli ultimi ostaggi israeliani, cioè quello che Hamas voleva scatenando il 7 Ottobre; poi ha affermato che i palestinesi di Gaza non saranno costretti a lasciare la propria terra, cioè l’opposto di quello che il governo Netanyahu stava perseguendo, senza dimenticare ovviamente l’apertura dei confini e l’ingresso degli aiuti umanitari.
Infine, anche l’annessione formale della Cisgiordania da parte di Israele esce dal panorama dell’attualità. Queste sono le carote.
Il bastone ha colpito sulla volontà dei leader di Hamas di non disarmare, i miliziani invece dovranno cedere le armi e ricevere l’immunità, altrimenti andare in esilio. Dovrebbero anche accettare, e qui il condizionale è d’obbligo, un Consiglio di pace per Gaza, guidato dall’ex premier inglese Tony Blair.
Su di lui Hamas ha già detto che è improponibile un uomo odiato in tutto il Medio Oriente per aver appoggiato l’invasione americana dell’Iraq nel 2003. Blair, d’altra parte, è un altro dei simboli oggi di un modo occidentale di fare politica che si intreccia con gli affari: adesso avremo un politico che dovrebbe garantire la transizione politica a Gaza ed insieme “valorizzare” i giacimenti di gas e petrolio al largo delle coste di Gaza, di cui da molti anni la British Petroleum ha conquistato, con l’assenso di Israele e dell’ANP, le concessioni per l’estrazione.

Gaza non sarà, forse, la “Riviera” ipotizzata dagli amici di Trump e regno degli speculatori immobiliari, ma piuttosto il fondale di sempre attivi petrolieri in Medio Oriente.
Bibi Netanyahu ha detto che accetta il piano Trump, ha mostrato scetticismo sulla sua accettazione da parte di Hamas, ed ha ingoiato senza troppa fatica la pillola, a cui Trump lo ha obbligato, delle scuse in diretta ai governanti del Qatar per il bombardamento del 9 settembre.
Tuttavia, proprio questo atto politico fa intuire il motivo del cambio di passo di Trump e della corte di cui si è circondato. Da esecutore della strategia di Netanyahu, che puntava ormai alla pulizia etnica di Gaza e all’annessione immediata e totale della Cisgiordania, senza indietreggiare per raggiungere questi obiettivi al perseguimento del genocidio del popolo palestinese, Trump ora innesta la retromarcia e punta al cessate il fuoco permanente, e non più a quelle tregue da stracciare da parte israeliana, secondo le loro convenienze di politica interna.
Il bombardamento israeliano a Doha, il tentativo di uccidere in terra del Qatar non solo i leader di Hamas ma anche l’ipotesi di una pace raggiunta con la mediazione e la diplomazia, e poi i successivi incontri a Doha dei capi degli Stati arabi e musulmani, e poi a New York, in forma ridotta, di una delegazione di questi con Trump, ha fatto capire al presidente americano che questo mondo gli chiedeva di scegliere: sostenere Israele fin dentro il baratro del genocidio a Gaza e della disintegrazione politica, militare ed economica dell’intera regione mediorientale, o fermare subito Netanyahu e il suo governo.
Chi chiedeva il cessate il fuoco subito, aveva ragione. In presenza di un genocidio in corso nulla sarebbe stato poi possibile. Per questo il piano Trump non è ancora la pace, ma adesso si può discutere anche del futuro. Ad una condizione: che non si può ancora barare, come si è fatto negli ultimi decenni e fino ai nostri giorni.
Complicità e silenzi della politica ci avevano portato ad un vicolo cieco. Il timore davanti all’espandersi e all’aggravarsi dei conflitti ed anche l’indignazione popolare sono stati dei potenti e necessari richiami a non rimanere inerti.
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