Il primo a pensarci è stato un analista di Danske Bank: la tappa del Tour di Taylor Swift a Stoccolma ha provocato un aumento dello 0,2% del tasso di inflazione. Colpa dell’impatto sui prezzi di hotel e ristoranti, schizzati alle stelle per far fronte alle richieste dei fans. Ma esiste anche l’altra faccia della medaglia. A ribaltare l’allarme del “falco” scandinavo preoccupato dal carovita arriva la valutazione delle “colombe”. Il tour mondiale della popstar americana, che alle spalle ha 200 milioni di copie vendute (record assoluto nell’era digitale) si sta rivelando un volano per il Pil Usa. Il solo fatturato realizzato negli States potrebbe generare una spesa totale di 4,6 miliardi di dollari, superiore al Pil di 35 Paesi, ha stimato il centro di ricerca Common Sense Institute. Si pensi solo agli hotel, ai ristoranti e ai voli interni, una frazione del giro d’affari legato ai 137 concerti in cinque continenti previsti.
Non ci si può stupire, a questo punto, della domanda di un giornalista finanziario del New York Times rivolta a Jerome Powell durante la conferenza stampa della Fed: non crede, presidente, che la corsa ad acquistare i biglietti dei concerti della star siano un segnale di grande salute dell’economia? Anche perché, ha aggiunto il cronista, la febbre per la popstar non è un episodio isolato. Un anno fa o poco più si celebrava la morte delle sale cinematografiche, sepolte dallo streaming e dalla pandemia. Oggi a ogni latitudine il pubblico fa la fila per vedere il film dedicato a Barbie, vero e proprio fenomeno di business. Nel 2022, pur di riempire le sale, la catena Amc offriva un secchio di pop corn per invogliare i teenagers. Oggi il cestino piccolo è salito a 10 dollari in quel di New York dove il biglietto arriva a 28 dollari.
Insomma, nonostante i tassi abbiano raggiunto il livello record da 22 anni, non si avverte aria di recessione. Almeno negli Usa. Ma la reazione entusiastica delle Borse europee agli annunci della Bce va nella stessa direzione: i mercati scommettono che la stagione degli aumenti del costo del denaro si avvicina alla fine. Il livello dei tassi, certo, resterà a questi livelli almeno per alcuni mesi. Ma, grazie alla buona tenuta dell’occupazione, si fa strada la sensazione che la recessione possa essere evitata o ridotta ai minimi termini. Specie se, prima o poi, i cannoni taceranno a Oriente.
Insomma, la quadratura del cerchio sembra a portata di mano: i profitti salgono, l’occupazione pure, l’inflazione sembra destinata a scendere, seppur molto (troppo) lentamente. Ma ad alimentare la fiducia sono le spese dei consumatori: non solo concerti o spettacoli vari, ma anche le file interminabili dei turisti che sfidano il caldo estremo e le grandinate improvvise. Per tutti l’imperativo è di recuperare il tempo perduto con la pandemia, sfruttando la liquidità che in questi anni è stata garantita dai Governi, decisi ad alimentare la macchina dell’economia.
È un fenomeno incomprensibile, a prima vista. Com’è possibile che la stretta più feroce da mezzo secolo a questa parte non abbia prodotto disoccupazione e fermato gli investimenti? Forse, argomentano alcuni, la stretta non è stata così feroce. Gli Stati hanno fatto il pieno di quattrini vendendo bond a rendimenti quasi zero nel biennio 2021/22. Lo stesso hanno fatto molti emittenti, che non a caso si presentano all’appuntamento delle trimestrali in condizioni finanziarie solide. Insomma, dietro la stretta in apparenza feroce, tutta una serie di fattori (spesso in seguito a decisioni delle banche centrali) ha lavorato per limitare l’impatto dei tassi. Anche i governi, mantenendo disavanzi pubblici elevati (e assai poco giustificati in una situazione di pieno impiego) hanno contribuito a controbilanciare la stretta monetaria.
Ma adesso? Fino a quanto potrà durare quest’atmosfera ideale, capace di coniugare tassi in salita, inflazione in discesa e crescita costante? Domanda da un miliardo di dollari. Prima o poi, una stretta eccessiva potrebbe far sì che l’economia vada a schiantarsi contro una roccia. Un rischio che incombe soprattutto sui destini dei Paesi più indebitati. Come l’Italia, che in autunno giocherà partite decisive per i suoi equilibri finanziari sempre precari ma anche per garantire alle imprese i capitali necessari per non perdere il treno delle nuove tecnologie.
Non è il caso, perciò, di festeggiare più di tanto. Però diciamolo: il sistema finora ha tenuto meglio del previsto.
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