Israele è decisa a occupare tutta Gaza: mina gli edifici e aspetta i riservisti per far fronte alla guerriglia. Ieri l'annuncio di Pizzaballa e Teofilo
“Andarsene da Gaza e fuggire verso sud è come una condanna a morte”. Così il patriarca di Gerusalemme dei Latini, cardinale Pierbattista Pizzaballa, e quello dei greco-ortodossi, Teofilo III, in un comunicato congiunto, hanno dichiarato al mondo la volontà delle comunità cristiane di rimanere nella Striscia, proprio mentre Netanyahu ribadisce che Israele non rinuncia all’operazione militare che comprende l’evacuazione dei palestinesi verso sud, con il chiaro intento di espellerli.
Un piano al quale, spiega Filippo Landi, già corrispondente RAI a Gerusalemme e inviato del TG1 Esteri, Tel Aviv non rinuncerà. Trump dice che la guerra si può concludere in tre settimane, ma è solo il tempo tecnico che serve all’IDF per fare arrivare i riservisti e iniziare a occupare Gaza facendo fronte alla probabile guerriglia che verrà scatenata contro i soldati.
Pizzaballa e Teofilo hanno dichiarato che le rispettive comunità cristiane non evacueranno Gaza. Una decisione che peserà in qualche modo sui piani di Israele?
Tempo fa, in un’intervista, padre Pizzaballa disse che rimetteva la scelta di rimanere o lasciare la parrocchia di Gaza nelle mani di preti, suore e laici che lì si trovano, assicurando che si sarebbe fatto carico della loro decisione. Credo che oggi da Gaza sia arrivato un messaggio chiaro, anche se non facile. La volontà di rimanere è un elemento importante, da comprendere fino in fondo, che si accompagna alla consapevolezza che è in atto uno sfollamento forzato della popolazione da tutta Gaza, al di fuori delle mura della parrocchia, nella direzione sud, verso quello che Pizzaballa ha definito “luogo di morte”.
Cosa potrebbe succedere?
Credo che i militari israeliani si limiteranno ad aggirare le mura della parrocchia e a proseguire verso sud, lasciando poi ai politici la trattativa riguardo al futuro delle 500 persone che hanno trovato rifugio lì, a Gaza nord.
Le polemiche seguite all’ultimo bombardamento della chiesa latina in qualche modo hanno lasciato il segno?
Tutti ricordano che Trump, in una conversazione telefonica, aveva chiesto conto a Netanyahu di quel bombardamento, ma non si può dimenticare che tutte le strutture esterne alla parrocchia sono state colpite e devastate, in particolare la grande scuola delle suore del Rosario, particolarmente importante perché, come succede in tutti gli istituti del Medio Oriente, frequentata da un gran numero di bambini di famiglia musulmana.
Trump ha dichiarato che la guerra conoscerà la fine tra un paio di settimane. È una delle tante scadenze cui ci ha abituato anche per l’Ucraina o c’è un motivo per cui ha fissato questa data?

Appare un’offerta di copertura politica a Netanyahu per un’azione militare che è in corso e che dovrebbe avere il suo apice nella prima settimana di settembre, con la chiamata in servizio di almeno 60mila riservisti, diserzioni permettendo. Quindi non credo che sia un caso l’indicazione di due o tre settimane: è il tempo necessario agli israeliani per consolidare la loro presenza sul campo. Mi sembra che si stia giocando non tanto sui tempi di un’ipotetica trattativa, quanto sui tempi che gli stessi militari chiedono per agire.
Cosa vogliono i militari?
Non avendo accettato il gabinetto di sicurezza la richiesta del capo dell’esercito di soprassedere all’avanzata dentro Gaza e alla sua conquista, i militari non vogliono trovarsi impantanati in una situazione in cui una parte dei soldati è già nella zona delle operazioni, mentre un’altra sta per arrivare. La scansione del tempo segue una logica militare: è anche un modo per illudere l’opinione pubblica mondiale su un attivismo diplomatico che aveva portato Hamas ad accettare il cessate il fuoco, accordo che i politici israeliani hanno bruciato sull’altare di una vittoria militare che, dal loro punto di vista, è decisiva anche per mantenere il controllo politico del Paese.
Come verranno sfruttati allora questi quindici giorni?
Forse non è chiaro quello che sta accadendo, ma l’operazione a Gaza è già iniziata, cioè i carri armati sono già entrati in città; il problema è rimanerci fronteggiando la guerriglia di cui i militari stessi hanno paura. E per questo è meglio aspettare i rinforzi. Lo sfollamento della popolazione diventa urgente, finalizzato a radere al suolo Gaza, come si sta facendo nelle parti di territorio che vengono acquisite, a Jabalia e Zaytun, nelle quali vengono minati gli edifici, soprattutto quelli più alti.
Perché in questo contesto Israele ha voluto colpire i giornalisti, come è successo nell’operazione all’ospedale Nasser?
In questo caso sono stati colpiti giornalisti che lavoravano per testate diverse, per la Reuters, che si era segnalata per un’informazione molto acquiescente nei confronti di Israele e del suo esercito, ma anche per Associated Press o Al Jazeera. Questo ci fa capire che eliminare una testimonianza, togliere di mezzo le “live” permanenti, le camere fisse che registrano continuamente, diventa una necessità anche militare. Non solo per evitare che le immagini vengano trasmesse nel prime time dei programmi delle tv mondiali, ma anche tenendo conto di possibili processi contro coloro che hanno usato armi contro i civili. C’è il timore che i militari e i loro comandanti in futuro vengano indagati e accusati dalla giustizia internazionale.
In Israele la protesta per liberare gli ostaggi ha portato anche a bloccare le autostrade: sta salendo di livello oppure si tratta di alcune fra tante manifestazioni che non impensieriscono Netanyahu?
Si è alzato, ovviamente, il livello, così come il governo ed esercito hanno alzato il loro livello di iniziativa. Ma abbiamo già visto in passato che questo tipo di protesta non ha sortito effetti decisivi.
(Paolo Rossetti)
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