Nella sua intervista a La Stampa di ieri, Elsa Fornero ha difeso la sua azione di ministro, con coraggio, serenità e senza rimpianti. Lo ha fatto a buon diritto, perché nelle ultime settimane di legislatura è stata in grado di “aggiustare” non solo il principale difetto della sua riforma delle pensioni (individuando nell’apposito Fondo, collettore di tutti gli stanziamenti previsti, una soluzione strutturale per il pasticcio degli “esodati”), ma anche di avviare a soluzione un guaio, ben più grave, ereditato dal precedente governo (le cosiddette ricongiunzioni onerose).
Certo, per quanti lamentavano di dover versare somme proibitive per poter ricongiungere contributi versati ad enti previdenziali diversi durante la vita lavorativa, la risposta è ancora parziale. Se sono salvi i soggetti che avevano cessato il lavoro prima dell’entrata in vigore delle legge n.122 del 2010, coloro che hanno avuto, in data successiva, il cruccio della ricongiunzione onerosa per poter accedere alla pensione, sono in grado di cumulare gratuitamente gli spezzoni contributivi soltanto per conseguire i trattamenti di vecchiaia, di inabilità e ai superstiti, una volta maturato il requisito anagrafico vigente. Restano fuori coloro che intendono avvalersi della ricongiunzione ai fini della pensione anticipata, per ottenere la quale potranno “totalizzare” oppure dovranno versare le somme richieste.
È abbastanza prevedibile che, nella prossima legislatura, soprattutto se vincerà la coalizione di centrosinistra, vi saranno spinte notevoli per riaprire ambedue i capitoli che tanto hanno angosciato il dibattito politico nell’ultimo anno. Occorrerà, invece, agire con cautela, valutando responsabilmente le risorse che già sono impegnate per risolvere tali problemi. Soprattutto, sarebbe opportuno evitare, durante la campagna elettorale, promesse facili che risulterebbero ben presto difficili da mantenere. Ma dovremmo osare di più anche sul piano della riflessione culturale, prima ancora che di quella politica o economica.
Proprio ieri l’autorevole quotidiano Il Sole 24 Ore pubblicava una pagina dedicata al rischio molto concreto che non abbiano applicazione, anche in conseguenza della fine anticipata della legislatura, quelle parti della riforma del lavoro riconducibili al grande capitolo delle politiche attive (servizi per l’impiego, formazione professionale, nuovi ammortizzatori sociali, ecc.) che rappresenta la vera alternativa a una gestione del personale in esubero ponendolo a carico dello Stato, dapprima con la rete delle tutele per chi ha perso il lavoro, per accompagnarlo, poi, a varcare la soglia del pensionamento a un’età quasi sempre inferiore a 60 anni.
In sostanza, l’uso del sistema pensionistico alla stregua di un importante ammortizzatore sociale, in Italia, non è ancora venuto meno. Il Paese si riconosce ancora in coloro che rivendicano di andare in pensione come e quando ritenevano di averne diritto, sulla base delle loro aspettative e programmi di vita. E non si rende conto che l’equilibrio del sistema, nel retributivo soprattutto, non dipende da quanto uno ha lavorato, ma dal periodo in cui percepirà la pensione rispetto a quello in cui ha lavorato e versato i contributi relativi.
Se si misurasse la quantità di risorse destinate a risolvere i tormentoni degli esodati e delle ricongiunzioni (era divenuto inevitabile farlo), mettendole a confronto con ciò che viene impiegato per lo sviluppo e l’occupazione, ci si accorgerebbe di una sproporzione che non ha riscontri altrove. Che altro dire? L’Italia è un Paese per vecchi.