Parliamo della sentenza n. 30/2015 con cui la Consulta ha applicato il principio del fondamentalismo giurisdizionale del “crolli il mondo purché si faccia giustizia”. Il provvedimento, infatti, è discutibile fino al punto di ritenere che la Corte Costituzionale sia andata oltre il suo ruolo istituzionale, pronunciandosi su di una questione squisitamente politica come è il criterio dell’adeguatezza delle prestazioni previdenziali indicato dall’art. 38 della Carta. Il contenuto dei diritti sociali non può prescindere dalle condizioni economiche di un Paese e da quanto esse possono garantire in una determinata fase storica. Inoltre, non è consentito a un organo giurisdizionale di vincolare in questo modo le risorse disponibili, imponendo il loro trasferimento – ad esempio – sulle pensioni, anziché sull’occupazione, senza tener conto che i pensionati possono avvalersi di standard di sicurezza, anche economica, difficilmente riscontrabili in altre categorie sociali.
Se non corretti in tempo (vedremo come) gli effetti di questa sentenza potrebbero essere devastanti per le finanze pubbliche nel lungo periodo (se si pensa ai possibili trascinamenti) e, comunque, qualunque tentativo opportunamente adottato dal Governo sul versante di un’auspicabile e opportuna sostenibilità produrrà effetti sui conti pubblici, anche nell’immediato a partire dal Def ora all’esame dell’Ue.
Risibile appare poi la considerazione per cui non sarebbe sufficientemente motivato il provvedimento del Governo Monti con riferimento “alla contingente situazione finanziaria” come se nel Palazzo della Consulta non ricordassero più che, nel novembre 2001, l’Italia, sull’orlo della bancarotta, rischiava addirittura di non pagare né le pensioni, né gli stipendi dei dipendenti pubblici.
Tutto ciò premesso veniamo ai contenuti di una sentenza controversa, tanto che sembra essere stata approvata unicamente grazie al voto doppio del presidente. La vicenda è arcinota, ma vogliamo richiamarne il dispositivo nel passaggio cruciale: la Corte “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui prevede che ‘In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo Inps, nella misura del 100 per cento’”.
Ciò significa che il comma 25 non viene cassato nella sua interezza (nell’alinea seguente della sentenza i “giudici delle leggi” dichiarano inammissibile un ricorso in tal senso). Il Governo non deve farsi intrappolare dalla sentenza della Consulta Ci sono dei margini di iniziativa. Innanzitutto, occorre interpretare correttamente le motivazioni della sentenza. Come risulta dal dispositivo, la Corte non ha ritenuto illegittimo l’intervento in sé (se lo avesse fatto avrebbe contraddetto la sua stessa giurisprudenza in materia), ma i suoi criteri e modalità.
È bene ricordare – lo si fa anche nella sentenza n. 30 – che nella Legge Finanziaria per il 2008 il Governo Prodi, nel quadro dell’attuazione del Protocollo sul Welfare del 2007, tagliò per un anno la perequazione automatica sulle pensioni di importo superiore a otto volte il minimo (allora circa 3,5mila euro mensili lordi). Vennero presentati (peraltro dalle stesse associazioni di dirigenti che hanno presentato anche questi ultimi) dei ricorsi che la Consulta bocciò. Ora, ad avviso della Corte, il caso del 2011 presenta profili differenti, perché la misura contenuta nel decreto Salva-Italia interveniva – in modo permanente – su trattamenti medio-bassi, tanto da mettere in discussione la loro adeguatezza (nonché i criteri della proporzionalità e della ragionevolezza). Come può il giovane caudillo uscire dal cul de sac in cui lo ha infilato proprio la relatrice Silvana Sciarra, da lui proposta come componente della Corte?
Se il Governo, con un provvedimento d’urgenza, rimodulasse il taglio (magari portandolo a livello di cinque volte l’importo del minimo) si avvicinerebbe, in pratica, alla proposta contenuta nella Relazione di Carlo Cottarelli (in tema di contributo delle pensioni alla spending review) e ridurrebbe l’ammontare da restituire ai pensionati. L’altra operazione da compiere potrebbe essere quella di una rateizzazione in un certo numero di anni.
Se un’operazione siffatta tornasse all’esame della Consulta, essa dovrebbe pronunciarsi ex novo e potrebbe anche riconoscere più equo, e quindi ispirato a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza l’intervento. Si tenga presente che la restituzione della rivalutazione non è un fatto automatico e che gli interessati, in mancanza di una soluzione e della relativa copertura finanziaria, dovrebbero citare l’Inps in giudizio; salvo il caso, peraltro problematico, macchinoso e praticamente teorico, di una class action (il sarchiapone del nostro ordinamento giuridico), come stanno ipotizzando le associazioni dei consumatori “un po’ per celia, un po’ per non morir”.
Insomma nessuno si illuda di avere già in tasca quelle risorse o di potersene avvalere come misura di rilancio del mercato interno. Non può venire alcun vantaggio da una destabilizzazione dei conti pubblici. Neppure per i 4 milioni di pensionati colpiti dal “famigerato” comma 25.