Il presidente Inps Tito Boeri, interpellato sul dato delle 500mila persone in pensione da oltre 36 anni, è tornato sul tema del contributo di solidarietà: “Siccome sono state fatte delle concessioni eccessive in passato e queste concessioni eccessive oggi pesano sulle spalle dei contribuenti – ha detto a margine del convegno Città Impresa – credo che sarebbe opportuno andare, per importi elevati, a chiedere un contributo di solidarietà per i più giovani e anche per facilitare e rendere più facile anche a livello europeo questa uscita flessibile”. Fino a qui le cronache.
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In questa occasione il presidente dell’Inps ha messo il dito su di una piaga aperta: la questione delle cosiddette baby pensioni. Peraltro, riferendosi al solo settore privato (non si capisce, però, per quali motivi l’Istituto di via Ciro il Grande continui a non fornire dati sulle pensioni del pubblico impiego, quando l’incorporazione dell’ex Inpdap – come dell’ex-Enpals, anche esso assente nelle statistiche – è avvenuta nel 2012), Boeri finisce necessariamente per sottovalutare la consistenza del fenomeno, dal momento che sono stati i dipendenti pubblici (in particolar modo le donne) a usufruire delle baby pensioni.
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Fino all’avvio delle riforme che hanno portato gradualmente all’omologazione delle regole pensionistiche tra i due settori, i dipendenti pubblici avevano, da sempre, la possibilità di andare anticipatamente in pensione dopo 20 anni di servizio se statali, dopo 25 anni se dipendenti degli enti locali. Peraltro, questa opzione era facilitata da due ulteriori vantaggi: la curva del rendimento premiava l’uscita anticipata; in più alla prestazione si aggiungeva la corresponsione integrale dell’indennità integrativa speciale (in pratica la rivalutazione automatica) nella stessa misura erogata al massimo dell’anzianità di servizio (venne riproporzionata agli anni di anzianità effettiva soltanto all’inizio del decennio ’80). Poi, nel 1973, con il Dpr n. 1092, furono introdotte le baby pensioni in senso stretto a favore delle donne coniugate con prole, le quali potevano ottenere il trattamento dopo 14 anni, sei mesi e un giorno di servizio. Si stima che, nel pubblico impiego, l’onere tuttora sostenuto per le baby pensioni sia superiore a 7 miliardi di euro l’anno. Va da sé che nelle amministrazioni pubbliche si tratta di pensioni di vecchiaia/anzianità acquisite con i requisiti ridotti ricordati.
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Dal 1992 in poi le regole sono cambiate, ma tante pensioni liquidate secondo quella normativa privilegiata sussistono ancora. Nel mondo del lavoro privato le pensioni godute da tanto tempo (e sicuramente non coperte dai contributi versati) appartengono a una gamma più ampia di quelle tipiche del pubblico impiego. È vero che negli anni ’80 le donne potevano andare in pensione di vecchiaia a 55 anni e gli uomini, come le donne, in pensione di anzianità con 35 anni di contributi a prescindere dall’età anagrafica. Com’è noto, per la loro posizione nel mercato del lavoro, sono stati e sono i maschi gli effettivi utilizzatori di questa forma di quiescenza anticipata; ma può essere, comunque, che una persona la quale aveva iniziato a lavorare a 15 anni (allora ce ne erano tante) maturasse il diritto a 50 anni e che oggi sia un gagliardo (o una gagliarda) 86enne. In generale, però, nei settori privati, si ha a che fare con trattamenti di invalidità pensionabile o ai superstiti, i cui titolari, più di trent’anni or sono, non avrebbero comunque potuto contare su prestazioni particolarmente elevate.
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Ipotizzare, allora, come ha lasciato intendere Boeri che il contributo di solidarietà andrebbe chiesto solo ai percettori dei trattamenti più elevati significa scambiare le lucciole per lanterne. Ciò non significa lasciar perdere. Queste persone hanno goduto di un privilegio effettivo, rispetto al quale la durata del trattamento pensionistico ha “fatto aggio” anche sulla limitatezza del suo importo. Per essere seri e voler seguire principi di equità, occorrerebbe applicare a tutti gli “assegni baby” un taglio, ragionevole e temporaneo, in percentuale sul differenziale tra l’importo della pensione e quello del minimo legale.