Secondo LUCA ANTONINI Il nuovo disegno di legge, che sembra condiviso dagli schieramenti, si realizza all'insegna di una spesa pubblica finalmente razionale
Nell’aula magna dell’Università di Padova, al convegno organizzato dalla rivista diretta da Mario Bertolissi, si è fatto il punto sul federalismo fiscale, una riforma destinata a cambiare l’assetto istituzionale e i comportamenti politici del nostro Paese. I lavori del governo sono in dirittura di arrivo, con un ultimo appuntamento con Regioni e Enti locali e poi il definitivo passaggio in Consiglio dei Ministri.
Il traguardo è quindi vicino per una riforma bipartisan, perché porta a sintesi i lavori degli ultimi anni: quelli dell’Alta Commissione, quelli del Governo Prodi, che aveva approvato un disegno di legge, quelli delle Regioni e degli enti locali, che in questi anni hanno maturato una fondata posizione. È una riforma che introduce una serie di principi importanti, che riprendono – come ha notato Franco Gallo, giudice della Consulta – il contributo che la giurisprudenza costituzionale ha fornito in questi anni, sempre sollecitando l’urgenza dell’attuazione del federalismo fiscale. Solo quest’ultimo, infatti, permette di coniugare in modo virtuoso autonomia e responsabilità, con una possibilità di razionalizzazione della spesa e di controllo democratico degli elettori regionali e locali.
Altrimenti un federalismo come quello voluto dalla riforma costituzionale del 2001, che ha decentrato forti competenze legislative, rischia di lasciare il Paese a metà del guado, nella peggiore delle situazioni possibili dove lo Stato non si ridimensiona e Regioni e Enti locali non si responsabilizzano. La Corte dei Conti ha infatti messo in evidenza che negli ultimi dieci anni, nonostante il “cantiere federalista” decentrasse funzioni, i dipendenti dello Stato centrale, anziché diminuire, sono aumentati di centomila unità. Regioni ed enti locali non si sono responsabilizzati: lo Stato ha continuato a ripianare con decine di miliardi di euro a piè di lista i loro conti, di fatto premiando chi di più – e male – aveva speso. Il federalismo fiscale è l’antidoto a questa – altrimenti devastante – situazione di stallo. Si sostituisce infatti il criterio del finanziamento in base alla spesa storica (che finanzia servizi e inefficienza) con quello del costo standard (che finanza i servizi ma non l’inefficienza).
Questo per il ceto politico significa cambiare registro: in una parola,significa responsabilità e resa del conto all’elettore. Si cancellano poi i trasferimenti statali a regioni e enti locali e i relativi importi vengono “fiscalizzati”, diminuendo corrispondentemente l’imposizione statale. Questo significa “tracciabilità” dei tributi, cioè mettere il cittadino nella condizione di giudicare come vengono spesi i soldi che gli vengono chiesti, soprattutto a livello locale. Significa anche poter abbassare, a livello regionale e locale, la pressione fiscale per cittadini e imprese nel caso di gestioni oculate delle risorse pubbliche. Il cittadino farà da arbitro.
