IL CASO/ Renzi e la svendita degli ultimi gioielli d’Italia

- Abate Faria

Visto il programma di Matteo Renzi, rimane da capire dove trovare le coperture che ci facciano rispettare le ferree regole che l'Europa ci impone. Il commento dell'ABATE FARIA

renzi_fiducia_senato_r439 Matteo Renzi in Senato (Infophoto)

C’è qualche cosa che non quadra, come si usa dire nel carcere-castello di If nel golfo di Marsiglia, dove mi trovo da duecento anni prigioniero. Qualche cosa che non quadra nel programma, nelle dichiarazioni iniziali del nuovo “leader carismatico” Matteo Renzi. O forse semplicemente qualche cosa di non detto, di volutamente dimenticato. Qualche cosa che è sfuggita una volta (poi subito goffamente corretta) all’ex ministro all’Economia del Governo Letta, Fabrizio Saccomanni.

Vedo che l’impressione non è soltanto mia. L’autorevole Financial Times ha giudicato il discorso sul programma piuttosto “scialbo” e, in diretta televisiva, mentre il segretario del Partito democratico parlava al Senato, Giuliano Ferrara, con una faccia quasi da “amante tradita”, giudicava il discorso del nuovo premier come il più brutto che sia stato fatto da un presidente del Consiglio dai tempi dell’unità d’Italia.

In questi giorni poi, anche dopo le altre dichiarazioni di Renzi alla Camera e al Senato, e alla prima uscita di Treviso, l’attenzione dei media si è concentrata più sullo stile del premier che sulla sostanza del programma. Si è sentito così parlare di “freschezza”, “linguaggio non politichese”, “coraggio”, “innovamento di approccio alla politica”. E la consueta lode per l’energia che il nuovo leader emergente dimostra nell’affrontare la delicatissima, fragile, diciamo pure drammatica, situazione economica-sociale e politica italiana. Non c’è dubbio che Renzi trasmetta al grande pubblico, mentre parla dal banco del Governo a Montecitorio e a Palazzo Madama, l’immagine di “uno che non fa parte di quest’aula”, di uno che non si vuole confondere con un ceto politico che non combina quasi nulla da venti anni a questa parte. Ma sarebbe poca cosa se il messaggio di Renzi al Paese si limitasse a questa autodistinzione, come se fosse un alieno disceso nella palude della politica italiana.

A ben vedere il nodo della credibilità politica è uno dei tanti problemi all’ordine del giorno e si inserisce, si inquadra pesantemente nella vera e propria crisi di sistema che l’Italia sta attraversando. In altri termini, vorrei dire che una politica, che in parte risolvesse i problemi economici e sociali del Paese o almeno indicasse una via ragionevole di risalita, una ragionevole speranza, risolverebbe con molta rapidità anche il nervo scoperto della credibilità politica. E’ per questa ragione che, alla fine, si arriva sempre alla sostanza delle cose e lo stile resta solo un accorgimento, importante per carità, ma non decisivo.

Allora andiamo alla sostanza di quello che abbiamo ricevuto da Renzi nei suoi discorsi, tra un mare di citazioni e del ricordo “incontri vissuti”. Nel giro di pochi mesi, se non di settimane, il Presidente del Consiglio ha messo in “cantiere” una riduzione del cosiddetto “cuneo fiscale” di dieci miliardi di euro. 

Quindi il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione ai privati, attraverso la garanzia della Cassa Depositi e Prestiti: un salasso che pare nei numeri indecifrabile, oppure non facilmente calcolabile per diversi motivi, ma che comunque non è certamente inferiore ai sessanta-settanta miliardi di euro. Aggiungiamo pure il piano di risanamento degli edifici scolastici e altri interventi necessari. Il calcolo che alcuni fanno si aggira intorno ai 100 miliardi di euro.

A questo punto il problema è come andare a trovare questa massa di quattrini, quali sono le coperture che ci facciano rispettare le ferree regole del “patto di stabilità” che l’Europa targata Merkel ci impone. Anche lo sforamento del famoso e lugubre “trepercento” sul deficit è poca cosa rispetto al programma renziano. Gli scenari quindi che si aprono possono essere differenti, anche non volendo credere allo sfogo di “profezie” funeste del mancato ministro Fabrizio Barca a quegli impenitenti imitatori di voce della “Zanzara”.

Gli scenari si riducono, a mio avviso, a tre. Il primo è molto improbabile o sarebbe meglio dire impraticabile. In altri termini un aumento della pressione fiscale, attraverso una “patrimoniale”, oppure altri svariati balzelli che gli italiani sono abituati a vedere crescere come i funghi dopo un acquazzone e due o tre giorni di sole. Si può ritenere che la situazione sociale sia talmente tesa e al limite della sopportazione che un simile scenario sarebbe una “miccia” accesa vicino a una bomba con il timer già in funzione.

Il secondo scenario è quello invece di una iniziativa realmente europeistica, ma in totale controtendenza con l’attuale politica ispirata da Berlino e da Bruxelles. In altri termini un autentico rovesciamento della scelta dell’austerità, che sembra contestata soprattutto dall’altra parte dell’Atlantico. A metà marzo, arriverà in visita a Roma Barack Obama, presidente degli Stati Uniti, autore di uno sforamento del deficit dell’11 per cento per rilanciare l’economia americana. Ed è noto che nel Dipartimento di Stato americano, più di un esponente ha detto chiaro e tondo che ormai il peso del prolungamento della recessione mondiale è dovuto alla politica europea ispirata dalla Germania.

In questo caso (e c’è da augurarselo, comunque la si pensi) è auspicabile che Obama possa dare una “spinta” a un ripensamento della politica di austerità europea e Matteo Renzi sappia cogliere l’occasione per poi coalizzare in Europa alcuni Stati che si oppongano ai diktat di Berlino e di Bruxelles. E’ una partita difficilissima, ma forse non impossibile, nonostante le ultime dichiarazioni del Commissario europeo finlandese Oli Rehn, che non sono affatto apparse in sintonia con un ripensamento della politica dell’austerità. E’ comunque su uno scenario di queste dimensioni internazionali che Matteo Renzi deve stupirci, dimostrando tutta l’energia e il coraggio che gli vengono generalmente attribuiti.

C’è infine un terzo scenario, più drammatico, ma per certi versi anche più realistico. I soldi per le coperture non si trovano, né attraverso “patrimoniali” o altre tassazioni su “bot” o su imprecisabili rendite finanziarie. E nemmeno si riescono a trovare con un nuovo accordo europeo. A quel punto, per “fare cassa” ancora una volta, restano da mettere in vendita gli ultimi “gioielli” delle grandi aziende a partecipazione statale. Parliamo di Eni, Enel, Finmeccanica e altro ancora. In una simile situazione concitata, si ripresenterebbe uno scenario simile a quello già visto dal 1992 in avanti. Non privatizzazioni ben pensate, ben calibrate, con annesse liberalizzazioni doverose, ma una “nuova svendita”, un nuovo “assalto alla diligenza” di soliti noti o di grandi investitori esteri. La speranza è che questo scenario non si avveri mai, che si tratti solo di un cattivo incubo dettato dai tempi in cui viviamo. Ma è difficile non pensare a una simile conclusione, mettendola in relazione all’inizio di questo ventennio sconclusionato. Dio ce ne scampi e liberi.





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