E’ paradossale dover constatare che la più attuale e significativa lezione di democrazia parlamentare provenga oggi dalla vicenda legislativa ed elettorale che contraddistinse l’approvazione e l’applicazione della cosiddetta “legge truffa” (n. 148 del 1953). Anche allora l’esecutivo pose la questione di fiducia, premendo sulla maggioranza di governo per l’approvazione di un modello elettorale oggetto di radicali contestazioni nelle Camere e nel Paese. E tuttavia, a leggere gli atti parlamentari dell’epoca (compresi i due interventi di Aldo Moro a giustificazione della fiducia) e a riflettere sulle successive determinazioni di Alcide De Gasperi, presidente di quel Governo, risalta la diversità di metodo costituzionale e di merito elettorale impiegati in quel momento con la “legge truffa” e in quello attuale con l’Italicum.
All’epoca la richiesta del Governo non si esaurì nella dimostrazione della forza parlamentare della coalizione di maggioranza, né si risolse nella mortificazione delle istanze di rappresentanza elettorale delle minoranze. Per contro, piuttosto che troncare il dibattito politico ed estremizzare il dissenso sociale, essa fu tale da sortire l’effetto opposto; fu capace di riaprire le ragioni e il dinamismo del circuito democratico, rinviando alle istituzioni e al corpo elettorale la scelta concreta di attribuire o meno il premio maggioritario alla coalizione vincitrice.
Quanto al metodo di approvazione, come ebbe modo di spiegare Aldo Moro alla Camera dei Deputati (18 gennaio 1953), se è vero che la richiesta di fiducia pose in preminenza l’aspetto politico su quello tecnico-legislativo del provvedimento in discussione, è anche vero che ciò poté avvenire proprio per il merito elettorale introdotto.
Quel modello presentava tre caratteristiche invece assenti nell’Italicum. Anzitutto, rendeva beneficiaria del premio maggioritario un’intera coalizione di partiti e non già un singolo partito; una coalizione capace di presentarsi al popolo italiano, proponendo “la sua candidatura a conseguire la maggioranza e pertanto a governare nell’esercizio delle proprie funzioni“. In secondo luogo, stabiliva una soglia premiale di garanzia pari alla metà più uno del totale dei voti validi attribuiti a tutte le liste; aggiungeva Moro: “l’opinione pubblica si deve essere espressa con una chiara indicazione. E non è già una maggioranza relativa che si trasformi in una più o meno solida maggioranza assoluta. E’una maggioranza assoluta già conseguita che viene integrata in qualche modo, per assicurare quella funzionalità della quale abbiamo parlato“. Infine, stabiliva un premio di 380 seggi, aumentando di non più del 15% la rappresentanza elettorale già conseguita (Camera, 8 dicembre 1952).
La combinazione fra i tre correttivi, insomma, era tale da scongiurare ogni automatismo elettorale, rimettendo la concreta assegnazione del premio di maggioranza alla volontà degli elettori. Ecco perché la richiesta di fiducia da parte dell’esecutivo, piuttosto che troncare, riattivò i circuiti della democrazia parlamentare. Le forze politiche, singole o coalizzate, stante la difficoltà di conseguire la maggioranza assoluta dei suffragi, furono indotte a meglio organizzarsi, potenziando le proprie offerte e rendendo più stringente il collegamento insito nel sistema parlamentare fra elettorato, partiti e Parlamento.
E’ a questo punto che le scelte elettorali del Paese si coniugarono con quelle dei principali attori istituzionali, facendo emergere il primato della politica sui sistemi di voto e, in definitiva, assicurando la coesione sociale. E’ vero che gli elettori non accordarono la maggioranza assoluta dei voti richiesti alla coalizione centrista, costituita appositamente per ottenere il premio maggioritario, fermandosi ad appena il 49,8% dei consensi. E’ altrettanto vero, tuttavia, che mancarono all’appello poco più di 55mila voti, a fronte di oltre un milione e mezzo di schede bianche o nulle; sicché, verosimilmente, sarebbe bastato ricorrere alla verifica delle schede elettorali per conseguire il premio di maggioranza. Eppure tale richiesta non fu avanzata da De Gasperi, per evitare l’esasperazione delle tensioni e per salvaguardare l’unità del Paese. Sicché, in definitiva, le ragioni della stabilità governativa e della governabilità della maggioranza non prevalsero su quelle della stabilità sociale.
Diviene così stridente il confronto di quella lezione con l’attuale vicenda della fiducia parlamentare chiesta e ottenuta dal Governo Renzi sull’Italicum. In questo caso, al di là delle apparenze, non si è trattato di una vittoria della politica, ma della sua amara sconfitta. L’introduzione di un meccanismo premiale automatico e senza soglia di garanzia, capace di assicurare alla minoranza partitica più suffragata un premio parlamentare indefinito, suscettibile di superare perfino il 30% dei seggi a disposizione, non premia certo le ragioni della partecipazione, ma le rendite di posizione; libera le decisioni della più forte minoranza da ogni controllo dell’elettorato, ponendo la stessa al riparo di un sistema premiale impermeabile agli accadimenti storici.
Potrebbe riassumersi il tutto nel passaggio dal “primato della politica” al “primato dei meccanismi elettorali”. Sicché, nello scarto fra i due estremi e nella conseguente trasformazione del sistema parlamentare, sono già messi in conto i relativi effetti: lo sbandamento delle minoranze, l’inefficacia dell’azione delle opposizioni, lo scollamento sociale, l’incremento dell’astensione, l’irresponsabilità politica.
E pensare che c’è chi festeggia.