Nell’arco di poche ore Forza Italia ha dato via libera alla presidenza Rai per Marcello Foa — indicato dalla Lega — e alla vicepresidenza del Csm per David Ermini, un laico espresso dal Pd, considerato vicino a Matteo Renzi. Il doppio passo sembra iscrivibile nel proverbiale format politico dei “due forni”. Ma attorno non c’è la prima repubblica di Giulio Andreotti, che — fra gli anni Sessanta e Settanta — teorizzava e talvolta praticava come leader Dc l’arbitraggio parlamentare con il Psi o il Pli (o addirittura deputati e senatori del Msi, in potenziale libera uscita all’occorrenza).
Oggi, attorno ai “due forni” utilizzati da Silvio Berlusconi — formalmente un leader di minoranza — c’è l’alba incerta della terza repubblica. C’è la più che incerta “fase due” del governo gialloverde: iniziata con lo sventolìo della “finanziaria del popolo” da parte dei ministri M5s dal terrazzo di Palazzo Chigi. C’è una congiuntura politica sempre più proiettata sulle elezioni europee di maggio (ma già in ottobre il voto locale in Baviera e Trentino-Alto Adige potrebbe mettere in crisi governi in Germania come in Italia). Ebbene: perché Berlusconi ha infilato due puntate nel forno di Salvini e in quello del Pd renziano?
Il Cavaliere 82enne, soprattutto dopo il voto del 4 marzo, si muove su un terreno inequivocabilmente tattico, con una direttrice evidente: la messa in sicurezza delle proprie aziende di famiglia. Il “tesoretto” parlamentare racimolato all’ultimo voto politico è il veicolo di questa manovra: difficilmente Berlusconi vorrà rimetterlo in discussione a breve e anche la scadenza europea dovrà essere superata limitando il più possibile una prevedibile erosione (eloquenti i dubbi del Cavaliere su una ri-candidatura personale). Lo scioglimento della riserva sul candidato leghista alla presidenza della Rai (nella continuità del duopolio nazionale) non aveva molte alternative: ma evidentemente è stata utile al Cavaliere per far emergere la rilevanza di FI e per rinfrescare i termini di quell'”unità del centrodestra” che pare scontata anche al rinnovo dell’europarlamento.
Se la Lega si imporrà in Trentino con percentuali allineate agli ultimi sondaggi e sostituirà il Pd a fianco di Svp a Bolzano, mentre la Csu dovesse resistere bene a Monaco davanti alle spallate estremiste di AfD, il progetto di “Grande Ppe” in Europa farà passi avanti: e Berlusconi si preannuncia come “pontiere” di un cartello elettorale allargato alla Lega. Ma altrettanto prevedibile sembra il feedback accelerato sulla formazione di un unico partito del centrodestra italiano con Salvini come leader e come probabile premier. Fin qui, comunque, non siamo fuori dall’evoluzione possibile di una situazione di fatto.
Diverso è ragionare sull’appoggio a un esponente Pd di fede renziana nel delicato ruolo di vicepresidente vicario dell’organo di autogoverno dei magistrati, formalmente guidato dal presidente della Repubblica. Il quale Mattarella, presumibilmente, ha gradito la designazione di Ermini. Meno a genio gli sarebbe probabilmente andata la nomina di un laico del centrodestra oppure un’affermazione ascrivibile al “grillismo giudiziario” riconducibile anche all’ex presidente dell’Anm Piercamillo Davigo. Lo stop politico a M5s (che esprime il ministro della Giustizia) ha fatto il paio con la sconfitta di “Area” (l’ex Magistratura democratica) nel fronte “togato”. Qui Ermini è stato sostenuto dalle correnti più centriste di pm e giudici (Unicost e Magistratura indipendente).
Di fatto il “renziano” Ermini non sembra vicino al tumultuoso cantiere di ricostruzione di un Pd “di sinistra”. E non sembra un caso che Renzi abbia ribadito nelle stesse ore il suo no a ogni ipotesi di utilizzo del “forno M5s” per il “nuovo Pd”. Una fermezza che sembra insistere sul canovaccio del Nazareno all’interno e sulla scia macroniana in Europa, accentuando i rischi di scissione fra renziani e “ala sinistra” del Pd. Anche Renzi può contare su un “tesoretto” elettorale: che sarà forzatamente lontanissimo dal 40% del Pd alle europee 2014; ma non irrilevante né in Italia (con Lega-FI), né in Europa. E se un “partito macroniano italiano” contribuisse a un buon risultato del “fronte macroniano europeo”, sia in Italia che in Europa non sarebbero inimmaginabili forme di coalizione fra un Ppe più spostato sulle destre sovraniste e nuove forze centriste, liberalmoderate.
Il “gioco del forno” del vecchio Cavaliere italiano, figlio di Craxi e Andreotti, è forse meno elementare di quello che sembra.