“Sanzionato come potere, l’orbanismo continua a influenzarci come cultura. In questo senso ieri Orbán ha perso. Ma ha anche vinto”. Lo stile dice subito che non è un tweet di Matteo Salvini. Ma nessuno scommetterebbe a colpo sicuro che sono tre righe del Corriere della Sera, di un corrispondente senior come Paolo Valentino da Berlino. Sono peraltro le ultime righe di un commento a pagina 28 — sinistra in basso — non richiamato in prima pagina e neppure collocato nel primo piano sul voto anti-Ungheria dell’Europarlamento. Lontano, comunque, dalla foto della deputata olandese Judith Sargentini — la “giustiziera di Orbán” — che prorompe in lacrime trionfali in formato-talent.
Visto con gli occhi di un giornalista italiano in Germania, tuttavia, a Strasburgo le cose non sono andate come a una finale di Masterchef: the winner is eccetera eccetera. Il giorno dopo, “vincitori” e “perdenti” restano tali: sulle loro posizioni in campo, come prima, più di prima.
La “vincitrice” Sargentini ha raccolto 448 voti su un plenum di 750 del Parlamento Ue: cioè il 59% (ben sotto il 67% formalmente necessario per l’impeachement a Budapest) e soprattutto il 59% di un Parlamento eletto nel 2014 (due anni-luce prima di Brexit, quando il Pd italiano, ad esempio, aveva inviato a Strasburgo 31 deputati su 78 italiani mentre la Lega solo 6).
Il “perdente” Orbán, alla conta, ha avuto dalla sua 197 europarlamentari e 48 astenuti. Guardando i grafici di politico.eu (non sospettabile di simpatie “sovraniste”) qualcuno potrà rimanere sorpreso nel rilevare che la delegazione francese — e quella britannica — sono risultate nel loro complesso più pro-Orbán di quella italiana. E che all’interno del Ppe la Spagna è stata compatta come l’Italia nel dire no alle sanzioni a Budapest.
La “sorpresa” è giunta semmai da Austria e Germania: architravi del Ppe, schierate per le sanzioni in misura superiore alle attese. Ma il successo di misura della “mozione Sargentini” (che altrimenti sarebbe stata bocciata) nasce qui: dall’evidente tatticismo del cancelliere tedesco leader del Ppe. Non a caso il titolo dell’analisi di Valentino è stato: “Il ruolo di Angela Merkel e la linea dura di Weber”. Non era ancora tempo, ieri, per regalare ad Orbán un pieno accreditamento euro-tedesco, mentre al neo-candidato bavarese-popolare per il vertice della Commissione Ue (Weber) è stato chiesto un immediato test di affidabilità democratico-europeista e di “gioco di squadra” con l’intera coalizione di governo di Berlino. Temperato, peraltro, dai tweet pro-Orbán del dopo-voto.
Che ne sarà, intanto, della Sargentini, la pasionaria hippie della Amsterdam dei coffee shop? Della figlia di una famiglia “politicamente consapevole” (da Wikipedia) cioè assidua dei cortei anti-nucleari? La politica professionale della Sinistra Verde, laureata in “democratizzazione dell’Europa dai sistemi totalitari” è al momento in sparuta compagnia all’Europarlamento, assieme a un altro eletto per Groenlinks. Alle politiche del marzo 2017 i verdi hanno registrato un boom, triplicando i seggi, ma spartendosi le spoglie del partito socialdemocratico, praticamente scomparso. Anche l’Olanda ha sterzato a destra e sta facendo i conti con l’ascesa strutturale delle forze sovraniste.
Nel frattempo sembra evaporato il dignitoso magic europeista che un anno fa aveva consentito a Emmanuel Macron di agguantare la presidenza francese partendo dal 23% al primo turno. Ieri il quarantenne tecnocrate en marche ha sfoderato una proposta di “reddito universale” che avrà fatto sorridere Luigi Di Maio (che un sussidio “di cittadinanza” vorrebbe darlo solo sotto la soglia di povertà) e rivoltare nella tomba François Mitterrand.
Quando in Europa c’erano lui ed Helmut Kohl la politica europea non era certo un talent. Soprattutto “la sinistra” era una cosa seria: se finisce a fumare nei coffee shop è più pericolosamente probabile che poi “la destra” si ritrovi in birreria.