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Home » Esteri » Usa » POST-IT/ Fra “Intifada” e “Genocidio”: ebrei contro a New York

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POST-IT/ Fra “Intifada” e “Genocidio”: ebrei contro a New York

Nicola Berti
Pubblicato 20 Luglio 2025 - Aggiornato alle ore 19:29
La sede del New York Times (Ansa)

La sede del New York Times (Ansa)

Emergono segni di crisi nello storico monolitismo sionista della comunità ebraica di New York. E la parola "genocidio" viene ripensata/

Il New York Times – da sempre voce del milione di israeliti residenti nella Grande Mela, la città più importante della diaspora globale – appare ogni giorno più in difficoltà nel rispondere a due pressioni opposte.

Da un lato Israele, a due anni ormai dal 7 Ottobre e dopo Gaza, Libano, Iran e Siria, sembra aver ormai superato ormai ogni linea rossa accettabile per la maggioranza dem-liberal degli ebrei newyorchesi. Ne è stato riflesso visibile l’irrompere nella corsa a sindaco di Zohran Mamdani. Il vincitore delle primarie dem – a sorpresa e in misura schiacciante – ha fede islamica ed è un critico espresso del governo Netanyahu a differenza del rivale old dem (“white” di origini cattoliche) Andrew Cuomo, solidale a prescindere con Gerusalemme.


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La morsa sul NYT è dunque tanto evidente quanto potente. Molti lettori (israeliti e non, nonché parecchi giornalisti della “Grey Lady”) non tollerano più la linea notarile finora tenuta dal quotidiano cittadino su Gaza, soprattutto ora che il premier Benjamin Netanyahu è legato a doppio filo al presidente (newyorkese) Donald Trump.


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Ma questa spinta si scontra contro una resistenza ancora intransigente alla prospettiva di un sindaco musulmano e anti-Netanyahu da parte di un vasto establishment ebraico, a New York ancora dominante da Wall Street allo showbiz, dai media alle università. Un milieu, fra l’altro, già in parte trasmigrato a fianco di Trump, mentre sul versante opposto uno zoccolo di intellettuali israeliti radical ha accolto con diffidenza o aperta contrarietà lo sgombero dell’iconica Columbia University in nome della repressione dei “terroristi” pro-pal e del contrasto all’antisemitismo.

Di qui un singolare cerchiobottismo cui sembra via via costretto il NYT. Che ha schierato la sua prima firma sul Medio Oriente – Thomas Friedman, israelita critico di Netanyahu – per attaccare nel cortile di casa lo slogan più controverso di Mamdani: “Globalizzare l’Intifada”. È stata la sua unica puntata politica non locale – con toni aggressivi – in una campagna tutta centrata sulla crescente insostenibilità della vita quotidiana di 8,5 milioni di newyorkesi (fra i quali gli islamici sono stimati in 750mila).


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Friedman, in ogni caso, ha bombardato l’antisionismo di Mamdani solo poche ore dopo che – sulla stessa home del NYT – era stato rotto il tabù politico-linguistico del “genocidio”: cioè il capo d’accusa sempre più bruciante e concentrico contro Israele, da parte della Corte Penale Internazionale (CPI) e ormai anche dalla maggioranza dei governi e delle pubbliche opinioni occidentali. E il “genocidio” di Gaza sta ormai tracciando una nuova linea rossa politico-culturale a livello mondiale.

In Italia la stessa senatrice a vita Liliana Segre ha accolto l’ipotesi di “crimini di guerra” nella reazione di Israele ad Hamas ma ha sempre respinto fermamente l’equiparazione fra le decine di migliaia di morti di Gaza e i milioni di morti dell’Olocausto. L’UCEI – che ha espresso “dolore e cordoglio” per l’”incidente” che ha colpito una chiesa cattolica a Gaza, ma ha attaccato duramente 104 sindaci calabresi che hanno chiesto un boicottaggio commerciale verso Israele (in settembre l’UCEI sta organizzando in Calabria un evento, cui è stato invitato l’ambasciatore israeliano a Roma, per promuovere “convivenza, cooperazione e pace fra i popoli”).

Invece: “La conclusione cui non posso sfuggire è diventata che Israele sta commettendo genocidio contro il popolo palestinese”. Lo ha scritto sul NYT – nel cuore di un vero e proprio saggio in forma di op-ed – Omer Bartov, professore di studi sull’Olocausto e Genocidio alla Brown University, uno degli atenei della Ivy League.

Nel testo ricorda lui stesso di essere cresciuto in una “famiglia sionista”, di aver passato la prima metà della sua vita in Israele, di aver servito nell’esercito israeliano sia come soldato che come ufficiale, di aver concentrato sulla Shoah la maggior parte della sua carriera di ricercatore e docente.

Il suo è un intervento talmente denso e profondo che non può essere riassunto o ripreso a brani: è una rassegna analitica pressoché completa del confronto politico-culturale attorno alla guerra di Gaza (vengono citati anche i contrastatissimi report di Francesca Albanese, inviata speciale dell’ONU per i Territori). Un’eccezione sembra meritare la parte finale, nella quale l’autore non si sottrae alla questione forse più cruda, fino a qualche mese fa inimmaginabile e impronunciabile.

“Quali conseguenze avrà il capovolgimento morale di Israele (moral reversal) per la cultura della Memoria dell’Olocausto, per i suoi riflessi nella vita politica, nella scuola e nella ricerca scientifica?” Un interrogativo tanto più sofferto “quando così tanti fra gli intellettuali e leader continuano a rifiutare di confrontarsi con le proprie responsabilità di denunciare l’inumanità e il genocidio quando essi si realizzano”.

Bertov – che non si sente di escludere accuse di antisemitismo perfino contro chi, come lui, ha deciso di denunciare il “genocidio” palestinese – si dice ormai certo che “dopo Gaza non sarà più possibile continuare a studiare e insegnare l’Olocausto com’è stato fatto finora”.

P.S.: Quando questo articolo era già in home sul Sussidiario.net, il New York Times ha pubblicato come suo primo op-ed domenicale un intervento di Ezra Klein – fra le firme di punta del quotidiano – con questo titolo: “Perché gli ebrei americani non riescono più a capirsi l’uno con l’altro”. Questo il lead: “È un tempo di alta tensione nelle chat della grande famiglia ebraica. Il consenso che ha tenuto assieme gli ebrei americani per generazioni è andato in pezzi. Il consenso, in estrema sintesi, era questo: ciò che va bene per Israele va bene per gli ebrei. L’antisionismo è una forma di antisemitismo”.

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Tags: Donald TrumpBenjamin Netanyahu

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