Nella prima parte di questo articolo abbiamo provato ad analizzare la coscienza politica di Alexander Dubček e le varie circostanze che hanno reso possibile la Primavera di Praga. Nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968 la situazione precipita: l’Armata rossa, insieme agli eserciti di altri paesi del Patto di Varsavia, viola la sovranità territoriale cecoslovacca. Il “socialismo dal volto umano” si rivela dunque un’utopia e si scontra con la dura realtà e la violenza dello stalinismo riportato in auge da Brežnev.
La firma di Dubček sulla fine della Primavera?
Quello che succede in contemporanea all’invasione della Cecoslovacchia è per certi versi grottesco: Dubček viene rapito e portato a Mosca insieme ad alcuni suoi collaboratori, per sottostare al diktat di Brežnev e firmare il cosiddetto “Protocollo di Mosca”. Si tratta di un documento su cui le due parti, cecoslovacchi e sovietici, hanno trattato anche aspramente. Alla fine Dubček accetta di firmare, non appena i sovietici rimuovono le parti in cui definiscono la Primavera “controrivoluzione” e in cui affermano il carattere permanente della presenza degli eserciti invasori sul territorio cecoslovacco, insieme ad altre concessioni che comunque non avrebbero mantenuto.
A Mosca importava esclusivamente di imporre la propria volontà a Praga. Dubček sostiene di avere firmato unicamente per evitare di inasprire lo scontro e guadagnare tempo, nella speranza di poter ancora mantenere una parvenza di controllo una volta tornato in patria. In realtà, esattamente come negli incontri di Bratislava di inizio agosto, Brežnev era già concentrato sulla mossa successiva: con l’aiuto di Gustáv Husák e di altri comunisti ortodossi cecoslovacchi stava già iniziando a creare i presupposti per rimuovere Dubček definitivamente. Husák peraltro era passato nel tritacarne stalinista degli anni 50, e fu proprio Dubček a riportarlo sulla scena politica.
La lenta demolizione di tutte le conquiste della Primavera porta infine Husák a spodestare Dubček, che diventa presidente della neonata Assemblea federale. E sarà con questa qualifica che il leader della Primavera si macchierà della colpa più grave tra quelle che gli vengono imputate: la firma della cosiddetta “legge manganello”, con cui si autorizzavano le forze dell’ordine a usare anche la forza per reprimere le manifestazioni pubbliche di dissenso. Per esplicita ammissione di Dubček è questa l’unica cosa di cui si sarebbe poi “pentito per il resto dei miei giorni”. Ed è anche il suo ultimo atto pubblico fino alla Rivoluzione di velluto.
Emarginato in patria, amato all’estero
Tra il dicembre 1969 e il giugno 1970 Dubček viene inviato in Turchia con il ruolo di ambasciatore. Accolto con entusiasmo, fin dall’inizio comprende come l’incarico sia solo un modo per allontanarlo dalla scena politica senza doverlo necessariamente espellere dal partito o condannare pubblicamente. Pur avendo perso molto in termini di popolarità, il suo carisma è ancora forte e il regime preferisce non correre rischi. L’obiettivo, non dichiarato, è di impedirgli il ritorno in patria. Dubček riesce comunque a eludere la sorveglianza della polizia segreta e tornare a Praga passando dall’Ungheria.
A quel punto si ritrova inevitabilmente espulso dal partito e costretto ad accettare un lavoro nell’amministrazione forestale vicino a Bratislava fino al 1985, quando va in pensione. Vive costantemente sotto il controllo della polizia segreta. Nel 1988 viene insignito della laurea ad honorem in Scienze politiche dall’Università di Bologna, con la “complicità” del Partito comunista italiano che, nel 1968, si era schierato apertamente al suo fianco e contro la dottrina Brežnev. Il grande affetto con cui viene ricevuto in Italia lo commuove e l’opportunità di ribadire il proprio ideale di un “socialismo che può esistere solo in un contesto democratico” lo riportano subito a una popolarità inattesa.
Al ritorno in patria Dubček è di nuovo circondato dalla freddezza e dalla paranoia del regime, che continua a sorvegliarlo senza la minima discrezione fino alla definitiva caduta del novembre 1989.
La Rivoluzione di velluto e il ritorno in politica
Il 1989 è l’anno in cui, finalmente, il comunismo perde definitivamente la sua battaglia contro le popolazioni che aveva oppresso per decenni. A cominciare dall’Ungheria, per proseguire attraverso la Polonia e la Germania, la grande onda del cambiamento arriva in Cecoslovacchia. Le immagini dei tedeschi che abbattono il muro di Berlino il 9 novembre fanno il giro del mondo.
Il 16 novembre un gruppo di studenti manifesta a Bratislava, per chiedere libertà e democrazia. Il giorno dopo, un altro gruppo di studenti manifesta a Praga per commemorare Jan Opletal, vittima del regime nazista cinquant’anni prima. Al termine, la folla si sposta sulla Národní třída dove viene brutalmente attaccata, all’improvviso, dalla polizia. La situazione precipita: in serata inizia a circolare la notizia (non confermata, anzi successivamente smentita) della morte di un manifestante. Le piazze di tutto il paese si riempiono di gente che protesta e chiede la fine del regime.
È ufficialmente l’inizio della Rivoluzione di velluto (in ceco “Sametová revoluce”, in slovacco “Nežná revolúcia”) che nel giro di pochi giorni avrebbe portato al trionfo di Dubček e Havel sul balcone di Piazza Venceslao a Praga. Il regime comunista cecoslovacco è finalmente sconfitto: Havel diventa il primo presidente della nuova Cecoslovacchia libera, mentre Dubček è presidente dell’Assemblea federale.
La gente può di nuovo manifestare liberamente tutto il suo affetto al vero rivoluzionario della Primavera di Praga. Il teatro politico della nuova Cecoslovacchia post-comunista mette infine Dubček davanti alla scelta del partito cui appartenere. Il rifiuto al Partito Comunista è netto: la preferenza va per i socialdemocratici di Boris Zala, che gli cede volentieri la presidenza del movimento.
Dubček raccoglie in un libro le sue memorie: Il socialismo dal volto umano. Autobiografia di un rivoluzionario. Nel libro passa in rassegna i vari eventi significativi della propria vita e, anche se a tratti sembra mettersi troppo sulla difensiva, risponde chiaramente alle troppe critiche ricevute da tanti che avrebbero voluto riscriverne la storia. Espone con sincerità i dubbi e le illusioni di quello straordinario periodo storico, in cui per poco non gli riuscì l’impresa di trasformare un’utopia in realtà. Ricordando con ammirazione la figura paterna e quel desiderio di aiutare gli altri, fa trasparire la sincerità con cui si sarebbe poi lui stesso impegnato per dare un “volto umano” a un sistema che però non era interessato al cambiamento. Alexander Dubček muore a Praga il 7 novembre 1992, a seguito delle gravi ferite in un incidente stradale due mesi prima.
In diverse circostanze in cui c’è stata occasione di commemorarne la figura storica, la principale accusa mossa a Dubček, soprattutto in Slovacchia, consisteva nel mettere in risalto che fosse, in fondo, un comunista che non ha mai rinnegato il proprio credo. Ma la storia dimostra chiaramente la falsità e superficialità di questa accusa: Dubček credeva in un socialismo impossibile, e si è impegnato fino all’ultimo per renderlo possibile. Tutto questo attivandosi in un chiaro antagonismo nei confronti di quella ideologia che violava sistematicamente i diritti umani e le libertà fondamentali dei suoi concittadini.
Ha sicuramente commesso diversi errori, alcuni anche gravi (come la firma della legge che nel 1969 autorizzava le forze dell’ordine a usare la forza per porre fine alle manifestazioni non autorizzate). Ma nessuno nella storia ha mai il lusso di una traiettoria esistenziale perfetta o ideale.
A cento anni dalla nascita è doveroso ricordare con affetto e gratitudine la figura di questo mite slovacco, sempre sorridente, amico della gente, della libertà e della democrazia.
(2 – fine)
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