Sessant'anni fa usciva nei cinema americani il film "Quando la moglie è in vacanza", diretto da Billy Wilder

Ricorre oggi il settantesimo anniversario dell’uscita negli Usa di un film epocale nella hall of fame del cinema hollywoodiano di sempre. Si tratta di Quando la moglie è in vacanza di Billy Wilder, titolo italiano che edulcora quello originale – The Seven Year Itch (Il prurito del settimo anno) – molto più significativo.



Tratto da una pièce teatrale di George Axelrod, sceneggiato dallo stesso Axelrod col fondamentale apporto del regista Wilder, il film, pur evidenziando una linearità classica ammirevole sia nello stile che nel costrutto narrativo, sconta oggi, per i contenuti e per la presenza di attori divi di una Hollywood ormai scomparsa, un evidente debito generazionale nei confronti del grosso del pubblico contemporaneo.



Ciò nonostante, la presenza di un mito allo stato puro come Marilyn Monroe, qui in una delle sue migliori performance, dove gioca a fare la caricatura del suo personaggio di affascinante svampita, da sola giustifica la fama duratura del film. Celeberrima la scena della gonna sollevata dal vento che viene dalla sotterranea, che lascia intravedere per un prezioso momento le cosce della diva.

Il soggetto è piuttosto semplice, adattato – come detto – da una commedia di successo. Narra di un direttore editoriale (Tom Ewell) che, rimasto solo a Manhattan in piena estate durante le vacanze di moglie e figlio, incontra l’avvenente e svampita neo-vicina di casa (Marilyn Monroe), che abita al piano superiore. Marito esemplare da sette anni, l’uomo sarà tentato da un’avventura erotica che, tra azzardi e ripensamenti, non si realizzerà compiutamente mai.



Billy Wilder, prestato alla produzione della 20th Century Fox dalla Paramount con cui era sotto contratto, fu indeciso se realizzare un film da un soggetto tanto scarno, soprattutto per via delle limitazioni nel mostrare esplicitamente l’adulterio imposte dal Codice Hays di autocensura, e anche perché avrebbe voluto un giovane Walter Matthau nei panni del protagonista, scartato poi dalla produzione.

Col senno di poi siamo invece grati al famigerato Codice di censura operante a Hollywood in quegli anni (che impediva, tra l’altro, di mostrare due personaggi insieme a letto che non fossero marito e moglie nella finzione narrativa), perché ha costretto il regista ad adottare soluzioni più cinematograficamente interessanti. Infatti, tutto il film ruota attorno a un desiderio inibito e represso, continuamente evocato dai soliloqui interiori del protagonista – resi espliciti dalla sua voce fuori campo – e che affiora visivamente attraverso elementi simbolici sia del racconto come della messa in scena (il suo dito indice continuamente intrappolato in qualcosa, le sigarette che desidera, ma al contempo si nasconde per non cadere nella tentazione di fumare).

Ingegnosamente Wilder sfrutta l’ampiezza del formato cinemascope, che utilizza per la prima volta in carriera, per accostare immagini mentali (pensieri e desideri) del protagonista in concomitanza e in contrasto all’immagine narrativa principale. Riuscitissima la scena in cui il protagonista si immagina di sedurre Marilyn al ritmo del Concerto per pianoforte n. 2 di Rachmaninov, luogo mentale dove può liberamente baciare la sua preda in modo “rapidissimo e vorace”.

Oppure la scena della pianta di patate (in origine pianta di pomodori, perché in inglese/americano gergale “tomato” significa “ragazza avvenente”: per mantenere il doppio senso in italiano il pomodoro andava sostituito con la patata) che cadendo dal balcone del piano superiore determina il primo incontro tra i due protagonisti.

Oppure ancora nella scena del dialogo immaginario con la moglie, resa esplicitamente nella messa in scena tramite immagini mentali, nel quale il protagonista millanta tentativi di seduzione di altre donne cui lui ha resistito stoicamente.

Quando la moglie è in vacanza è quindi una presa in giro delle ossessioni erotiche dell’americano medio, supposto maschio cacciatore, dominante e infallibile seduttore, ma in realtà succube delle convenzioni sociali inibitorie. Messo di fronte alla tentazione per eccellenza, quest’Uomo qualunque del Ventesimo secolo non trova altro sfogo che il rifugiarsi nell’immaginazione. Fatto che consente al regista di esibire citazioni dell’immaginario collettivo di allora, sia cinematografiche che televisive.

Quando i due coinquilini escono per andare al cinema, vedono Il mostro della laguna nera (Jack Arnold, 1954), film a sua volta colmo di allusioni erotiche di taglio voyeuristico, che chiaramente evoca un qualcosa che ribolle sotto la superficie, che si rianima dentro la coscienza dell’uomo.

Figlio legittimo di una Hollywood che ormai quasi si perde nella notte dei tempi, questo film del maestro Billy Wilder appartiene di diritto alla nobiltà della storia del Cinema, anche se – come già evidenziato – sconta oggi un inevitabile invecchiamento dei contenuti. Rimane tuttavia mirabile la forma, che nella sua trasparenza classica, condita di elementi immaginifici e simbolici, dà sostanza a uno spettacolo di intrattenimento visivo perfettamente calibrato, che non invecchierà mai.

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