Caritas italiana ha ancora operatori a Gaza: farmaci, protesi, cibo, manca tutto. Ma soprattutto i palestinesi si sentono abbandonati dal mondo
A Gaza entra poco o niente, fanno fatica a passare anche le protesi per le persone mutilate. I punti medici della Caritas, che 126 operatori rimasti cercano di far funzionare per quello che possono, hanno aiutato 76 persone con questo problema, ma ogni giorno hanno a che fare con 2mila palestinesi che non riescono a curare patologie pregresse per mancanza di medicinali, feriti dalle bombe o malnutriti al punto tale da rischiare la vita.
A chi è rimasto, racconta Danilo Feliciangeli, responsabile per il Medio Oriente di Caritas italiana, viene data assistenza anche dal punto di vista psicologico. Soprattutto ai bambini. I gazawi cercano di resistere, ma la speranza devono darsela da soli: dalla comunità internazionale si sentono abbandonati, in un mondo in cui le regole del diritto sono state dimenticate.
Com’è la situazione a Gaza? È ancora possibile sostenere le persone che sono rimaste?
In questo momento ci sono 86 colleghi di Caritas Gerusalemme a Gaza City e altri circa 40 nel resto della Striscia. Così come tutta la comunità cristiana, cattolica e ortodossa, hanno deciso di restare, di non evacuare, almeno la maggior parte di loro.
Che tipo di assistenza riuscite a dare?
Almeno fino a prima dell’ultimo attacco di lunedì c’erano cinque punti medici ancora aperti e funzionanti. Il nostro medical point, dove ci sono tutta una serie di ambulatori, era stato danneggiato a causa di bombardamenti nei dintorni e poi ristrutturato durante la tregua di inizio anno. Non c’è la medicina d’urgenza, ma, per quanto possibile, altri servizi. Questa è la nostra sede stabile, poi ci sono quattro punti medici mobili realizzati appunto dopo la guerra, compound allestiti per l’occasione, con container e tende, uno nella parrocchia della Sacra Famiglia e tre in altre località di Gaza City. I punti erano sei, ma uno è stato attaccato.
Che cosa riuscite a fare in questi in questi punti medici?
Oltre ai cinque punti medici a Gaza ne abbiamo altri cinque nel resto della Striscia. Si fornisce un servizio di diagnostica, di somministrazione di terapie e distribuzione di medicinali per una media complessiva di 2mila persone al giorno. I nostri colleghi lavorano in condizioni assurde: sono tutti palestinesi e loro stessi sono sfollati più volte con le loro famiglie. Alcuni hanno subito anche dei lutti: lavorano in condizioni estreme, perché l’assedio totale imposto da Israele condiziona tutte le attività. È difficilissimo avere medicinali e attrezzature mediche, così come il cibo. A volte riescono ad arrivare le forniture delle Nazioni Unite.
La vostra è anche un’attività di sostegno psicologico?
Lo facciamo in tutti i nostri punti. In due di questi c’è proprio uno spazio attrezzato dove con mamme con bambini si svolge attività di riabilitazione di gruppo, mirata soprattutto ai più piccoli. In questi compound, oltre all’assistenza medica, si fa quello che si può per distribuire generi di prima necessità. Ovviamente tutto dipende dalla capacità di approvvigionamento, da quanto Israele vuole fare entrare gli aiuti. I nostri punti, a parte la “clinica”, si sono spostati in questi due anni in base alle operazioni militari. Gli sfollamenti sono continui, aiutiamo le persone che in un determinato momento si trovano nel raggio di azione dei nostri compound. La situazione, comunque, è disperata, e peggiora sempre di più.
Cosa sta succedendo?
C’è chi muore di fame, chi non ce la fa nonostante sia affetto da malattie assolutamente curabili. E poi ci sono tutte le vittime dei bombardamenti. Oltre a questo c’è tantissima disperazione e sfiducia nelle istituzioni e nel resto del mondo. Questo genocidio sta avvenendo di fronte agli occhi di tutti e gli abitanti di Gaza, così come quelli della Palestina e della Cisgiordania, si sentono ignorati. Curiamo per quanto possibile i feriti. Molti di coloro che si rivolgono a noi sono malnutriti: non hanno da mangiare.
Cosa riuscite a fare per i bambini?

Abbiamo sostenuto un grosso impegno per le vaccinazioni contro la poliomielite, ma anche contro tutte le altre malattie trasmissibili. In questi due anni le vaccinazioni erano saltate, dal settembre scorso, con un programma dell’OMS, sono state ripristinate. Le patologie legate alla guerra, anche alla denutrizione, le vediamo soprattutto su bambini e anziani, sui soggetti più deboli, anche sulle persone che hanno disabilità. Molti arrivano nelle cliniche con gravi segni di deperimento e lì vengono appunto ricoverati e vengono sostenuti con le terapie del caso. Ci sono molte patologie legate alle condizioni di vita, alla mancanza di igiene: chi può vive in tenda, senza accesso all’acqua potabile. Ecco allora che si presentano problemi intestinali, diarrea, scabbia. L’altro aspetto drammatico è quello delle mutilazioni.
Per questi pazienti cosa riuscite a fare?
Abbiamo un programma di fornitura di protesi per chi ha subito amputazioni a causa della guerra: Gaza, purtroppo, in questo momento è il posto al mondo con il più alto tasso di amputazioni rispetto alla popolazione. Con il nostro programma siamo riusciti ad aiutare 76 persone ad avere protesi soprattutto per le gambe. Anche l’ingresso delle protesi, tuttavia, è condizionato dall’assedio imposto da Israele.
Quanto è importante, invece, il supporto psicologico?
Questo servizio si sviluppa su tre livelli differenti. Il primo riguarda i nostri 126 operatori, cui garantiamo una supervisione, un monitoraggio della situazione e una help line che possono chiamare in qualsiasi momento se hanno bisogno di un sostegno. Poi c’è un supporto psicologico alla popolazione in rapporto uno a uno: ci sono colloqui individuali anche se non si riesce a garantire una terapia continuativa, perché le persone si spostano in continuazione. In presenza di attacchi di panico, lutti o situazioni particolari, però, l’aiuto di un esperto può servire. Infine, c’è il livello di intervento più di gruppo, con spazi protetti in cui agiamo con attrezzature molto semplici come giochi o strumenti musicali.
Torniamo ai bambini? Anche qui sono loro a subire più di altri le conseguenze della guerra?
Cerchiamo, anche con l’arte terapia, di aiutare i bambini a scaricare un po’ di stress, di creare momenti in cui possano giocare, mentre le mamme possono staccare per un attimo dalle preoccupazioni quotidiane. I bambini hanno una capacità di risposta enorme di fronte alle difficoltà, ma non è sufficiente a rielaborare i traumi che hanno vissuto. Ci vorranno decenni, per loro e per gli adulti, per superare gli orrori che stanno vivendo. Per i bambini la morte è un’esperienza quotidiana: hanno perso amici, familiari, sentono bombardamenti in continuazione, droni, aerei. Soffrono la fame e vedono i genitori disperati che vivono in un mondo di macerie. Alcuni sono rimasti senza nessuno.
C’è qualcosa che dà speranza in questo inferno che stanno vivendo a Gaza?
Purtroppo direi di no. La speranza l’ho sentita nelle parole di un collega con cui ho parlato in questi giorni, che raccontava la situazione con serenità. La speranza non viene dal mondo esterno, ma ce la danno i palestinesi, che negli ultimi settant’anni hanno subito di tutto. Parlo, naturalmente, non di chi ha fatto la scelta delle armi, del terrorismo, ma del 99% della popolazione che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente. Anche se si sentono traditi dalla comunità internazionale. Un discorso che vale per l’Occidente e anche per il mondo arabo. Tutto quello che è stato costruito alla fine della Seconda guerra mondiale rispetto al diritto internazionale umanitario e alla cooperazione tra i popoli negli ultimi due anni è saltato.
(Paolo Rossetti)
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