Il nucleo radiomobile dei carabinieri di Milano è stato premiato con l'Ambrogino d'oro, ma il caso Ramy Elgaml fa ancora discutere
La Procura di Milano ha emesso un nuovo avviso di conclusione indagini (ex art 415 bis c.p.p.) sul caso della tragica morte del giovane Ramy Elgaml avvenuta il 24 novembre 2024 a Milano dopo un inseguimento anche in contromano di 8 km culminato con lo schianto contro un semaforo. Nel fascicolo unificato risultano indagati sette carabinieri inseguitori e Fares Bouzidi, l’amico della vittima, pregiudicato, che guidava lo scooter rubato, ad alta velocità, senza patente.
Il nuovo avviso è un atto complessivo con nuove e più pesanti accuse rispetto alle tre chiusure di indagini distinte per sei indagati che erano state notificate nei mesi scorsi. Potete trovare i particolari su tutti i quotidiani. Per completezza va aggiunto che oltre all’omicidio stradale di Ramy vengono contestate lesioni procurate a Fares Bouzidi. Sono ipotizzate anche diverse forme di falso, depistaggio e favoreggiamento da parte degli operanti.
La chiusura delle indagini precedenti era stata propiziata dal triplice diniego del Gip di effettuare una ulteriore perizia a confutazione di quella della polizia locale che aveva escluso responsabilità dei militari nella tristissima morte del giovane Elgaml. Ora invece il nuovo avviso allarga l’orizzonte su nuove responsabilità e fattispecie criminali in capo ai carabinieri.
Secondo le nuove ipotesi del Pm, infatti, gli inseguitori non avrebbero rispettato la distanza di sicurezza, e per questo avrebbero urtato lo scooter, contribuendo, in concorso minore con Fares Bouzidi, alla morte di Ramy. Circostanze in parte presuntamente negate, nascoste o soppresse dagli operanti. Il Gip ha respinto già tre volte la richiesta di una perizia oltre quella della polizia locale, poiché le prove video agli atti sembrano escludere responsabilità dei carabinieri. In ogni caso il padre di Ramy Elgaml ha criticato aspramente la consegna dell’Ambrogino d’oro al Nucleo radiomobile dei carabinieri di Milano.

Una vecchia canzone diceva che la vita di un agente è fatta del “coraggio della paura”, un mix che sa di vita e di morte. Con l’adrenalina del momento che ti spinge e il calcolo che ti frena, e in più il timore verso un sistema che lascia l’agente solo di fronte a conseguenze legali e finanziarie molto rilevanti.
In una frazione di secondo, un operatore deve decidere come agire: se sparare, oppure più banalmente dare gas alla “Giulia” per non perdere il fuggitivo. E credetemi, i carabinieri di Milano queste cose le sanno bene. L’esitazione può essere fatale, ma l’azione espone a un’indagine, alla gogna mediatica e ad una salatissima parcella. In qualunque caso.
Per questo la dolorosa morte di Elgaml per sfuggire ai carabinieri assume un enorme significato. L’esempio di Ramy è un monito per tutti: per lo Stato verso i suoi servitori, per i carabinieri verso una giovane vita spezzata, e per i giovani verso il concetto di autorità dello Stato. Per tutti noi verso l’etica della vita e non della morte.
Non fissiamoci sull’avviso di garanzia. Quella è la parte semplice della storia. È un’incombenza burocratica, una formalità. Un uomo in servizio ha messo fine a una vita e la legge, chiede che il suo nome finisca lì, nero su bianco. Si chiama trasparenza. Perché chi muore, santo o farabutto, ha diritto alla verità ed alla pace giudiziaria. È una pratica che serve anche all’agente, per avere un avvocato e una difesa legale. È la parte sana.
Il problema viene il giorno dell’assoluzione. Si torna a casa innocenti ma con in tasca il conto salato dell’avvocato. Lo Stato ti lascia solo. Ti rimborsa le briciole ma il resto tocca a te pagarlo, anche per anni. Il ringraziamento per aver fatto, in quel drammatico momento, quello che dovevi. L’indagine serve a illuminare lo scenario, a dare risposte. Ma la tua incolumità economica e psicologica? Forse è meglio non agire?
Lo Stato non si può defilare dopo che hai fatto il tuo dovere. Il brutto non è l’atto dovuto, il brutto è il silenzio: è l’incuria che lo Stato riserva agli uomini in divisa. Basterebbe difendere gli agenti con l’Avvocatura dello Stato, addebitando le spese in caso di condanna.
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