Dirigere una collana che si chiama “I libri della speranza” è un rischio affascinante e tremendo. Non solo perché si eredita un nome che fu tra le mani di uno come Giovanni Testori e porta il marchio di un editore esigente e forte come Rizzoli. Ma anche e soprattutto perché nel contesto culturale attuale tutto sembra andare contro i “libri” e ancor più contro la “speranza”.
I primi sono spesso ridotti a puro affare commerciale. O a venerati strumenti di un tempo passato. E si pubblica di tutto in una gara al niente o al vacuo che sta distruggendo il gusto e l’impegno intellettuale. L’altra, la speranza, è vista come una cosa aerea, impalpabile, sentimentale. Come una specie di idiota ottimismo, e non la ragazza splendida che ci fa vivere, non l’energia costruttiva.
Perciò scegliere, commissionare, o scrivere come nel caso del primo testo “Hermann. Una vita storta e santa puntata alle stelle”, omaggio mio stravolto e documentato a Ermanno lo storpio, è una avventura esaltante e dura. Che da soli non si può correre senza il rischio di andare troppe volte fuori bersaglio.
E allora ne converso con tanti, a tanti chiedo aiuto, perché lo spazio offerto dalla Rizzoli a questo mia collana di fiori o di perle, collana di bestemmie e di preghiere, sia usato il meno vanamente, il meno vangloriosamente possibile. Collana generalista, nel senso che ci staranno dentro romanzi, saggi, antologie, novità e rispescaggi. Mi frullano in mente molti nomi – da santi raccontati come oggi si deve fare, a riprese di autori come Mounier, Chesterton, da Tarkovskij a Péguy a Claudel, da estremi scrittori italiani a novità d’oltreoceano, da filosofi a poeti, da storie di esperienze dure e luminose a saggi di storia…
Non so come fare, se lo sapessi sarei un pazzo. Ma so che c’è molta ricchezza in giro, e fare una collana significa ospitare, dare una casa (editrice) a voci che lo meritano, che vagano magari, che non sanno dove andare. Una collana di attacco e costruttiva, dove si metterà a fuoco il tema del rapporto tra Chiesa e Stato in occasione dell’unità d’Italia, o il tema dei diritti nel mondo moderno.
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O dove sarà possibile ascoltare le voci esili di santi sperduti. Come Hermann, vissuto nell’anno Mille, uno storpio, o meglio un “rattratto” da buttare via, che avrebbe rovinato la stirpe della sua nobile famiglia sveva e invece diviene un santo e un uomo chiamato “stupore del suo tempo”, autore di musiche e canti strazianti e dolci come il Salve Regina che ancora cantiamo e immerso nelle ombre e nell’oro di un’epoca della fede e della storia drammatica come la attuale.
Aver ritrovato la sua storia, le tracce conosciute e intorno a queste aver tessuto con i fili della mia prosa povera, scabra e poetica, una narrazione verosimile dei fatti in cui visse è stato un azzardo, sostenuto da una umiltà di estremo omaggio a don Giussani che ce ne parlava come esempio di uomo che trova il suo valore in altro da sé e a coloro che vivono una condizione simile, in questo tempo dove la speranza sembra legata solo a una certa idea di efficienza.
Non so se la scommessa è vinta, lo vedranno i venticinque lettori. Io so che non potevo fare altrimenti. E poi la grande forza romanzesca di De Wohl, per il suo oscuro sfavillante “Attila”. I prossimi libri verranno, saranno liberi, piccole pietre di una collana la cui preziosità non sta né nel prezzo (è Bur, è popolare), né nella nomea garantita in editoria da meccanismi di potere e di consenso, ma nel passaparola, nel passare di mano in mano tra uomini che hanno il gusto della speranza o lo stanno cercando come il bere e come il respiro.