Per qualcuno la Costituzione italiana è da cambiare. In parte lo si è fatto, non sempre con esiti felici. Ma cosa dovrebbe dire Macron?

L’Istituto dell’Enciclopedia Italiana chiede che dalla Costituzione venga espunta la parola “minorato” (art. 38). Non sorprende, se si pensa che alla presidenza della Treccani si sono appena avvicendati un illustre giurista ed ex giudice della Consulta – Franco Gallo – e un illustre filologo europeo come Carlo Ossola. Sono due nomi che di per loro meritano la sottoscrizione di un invito certamente attento all’evoluzione della società e della democrazia italiana. Con almeno tre post-it a condividere costruttivamente l’iniziativa di un grande ente culturale nazionale.



Il primo è l’avvertenza che se l’articolo 38 della Costituzione verrà innovato eliminando il lemma “minorato” l’occasione venga colta per rinfrescare il dettato-finalità, attualmente quello di garantire a “inabili e minorati il diritto all’educazione e all’avviamento professionale”. Con una riflessione evidentemente non solo linguistica ma anche politica: alla fine di un decennio che – fra l’altro – ha visto l’ascesa e il rapido declino del Jobs Act, sostituito dal reddito di cittadinanza antitetico a “educazione e avviamento professionale”, oggi a sua volta già rigettato in nome di un maldefinito “merito” sia a scuola che nel lavoro.



Resta certamente il fatto che nella Carta italiana non potrà mai entrare l’acronimo anglosassone Neet, che sembra qualificare peraltro tutti i “minorati” contemporanei. Non solo i “disabili”, ma tutti coloro cui manca lavoro, educazione scolastica e formazione professionale.

L’articolo 38 sembra d’altronde non essere il solo a meritare un restyling linguistico in un “tagliando stilistico” non episodico e potenzialmente sistematico della Carta. Ad esempio: in una Costituzione che già nel 2001 si è arricchita della parola “sussidiarietà” (nel nuovo articolo 118) sembrerebbero maturi i tempi perché la più concisa ed efficace “impresa” vada ad aggiornare la “libera iniziativa economica” nell’articolo 41. Ma gli spunti di riflessione – suggeriti dall’attualità come da una vasta pubblicistica scientifica – sono numerosissimi. Negli ultimi tre anni è improvvisamente divenuta caldissima l’intera formulazione dell’articolo 11, attorno alla parola “guerra”.



La suggestione finale – in una presa di posizione eminentemente culturale – sembra essere d’altronde profondamente politico-istituzionale. La legge fondamentale della Repubblica mostra i segni del tempo nelle sue parole: la tutela dei “minorati” nel 1948 era segno inequivoco di progresso sociale; oggi il solo parlarne è sospetto di discriminazione.

Dunque: la Carta italiana resta forse fra “le più belle del mondo”, ma non è scolpita nella pietra. Come non le è alcuna legge, fondamentale o non. Può essere sempre cambiata, in qualche caso deve essere cambiata. Oppure le dinamiche storiche la cambiano anche quando la sua fisionomia rimane apparentemente immutata sul piano giuridico e lessicale.

Un caso certamente significativo  – in questo turbolento inizio di 2025 – è quello della Francia e del suo dispositivo nucleare, unico nella Ue, sul quale oggi il presidente Emmanuel Macron vorrebbe imperniare una nuova “Europa della difesa” a guida francese. La “force de frappe” – cui collaborò anche Israele che divenne da subito una potenza nucleare – fu il frutto del riflesso imperialista e militarista di Parigi durante le definitive crisi coloniali in Indocina e Algeria.

Fu quel terremoto ad accelerare la crisi di “governabilità” di una costituzione puramente parlamentare ed evidentemente “minorata” rispetto alle sfide geopolitiche. Il risultato fu un’ampia riforma costituzionale, che Parigi orientò in senso semipresidenzialista adattando nei fatti la nuova Carta alle prassi introdotte dal generale Charles de Gaulle. Quest’ultimo divenne il primo “uomo forte” all’Eliseo e diede l’impulso finale al riarmo nucleare francese (fra l’altro nella sua netta postura di distanziamento dagli Stati Uniti, che pure avevano liberato la Francia occupata dai nazisti).

Le due “macro-riforme” – il riarmo nucleare e la formalizzazione del semipresidenzialismo costituzionale – procedettero in parallelo e anzi si condizionarono a vicenda. Fu sulla definizione del potere di bottone nucleare che maturò la competenza al presidente su ogni questione attinente la geopolitica e il comando delle forze armate. Il semipresidenzialismo francese fu cementato dal riarmo atomico ed ebbe una connotazione nazionalista anche quando il Trattato di Roma era già stato firmato.

Sessant’anni dopo resta il piedistallo istituzionale – di diritto e di fatto – su cui il presidente-monarca oggi dell’Eliseo fonda la sua pretesa di giocare sul confine russo-ucraino, a nome dell’Europa, le 290 testate nucleari del suo arsenale. Ma dopo la netta sconfitta elettorale di Macron alle ultime europee e legislative, si stanno moltiplicando le voci a favore di un rimaneggiamento della Quinta Repubblica, con l’eliminazione del doppio turno elettorale (troppo correttivo della democrazia popolare) e di un semipresidenzialismo che mai come in questi giorni sembra ostacolare il premier sostenuto da una coalizione politicamente diversa dal “campo presidenziale” nella conduzione dell’intera agenda politica, economica e sociale, rispondendone al Parlamento.

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