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Home » Esteri » RIARMO UE/ Starmer e Macron, “volenterosi” così uguali e così diversi

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RIARMO UE/ Starmer e Macron, “volenterosi” così uguali e così diversi

Nicola Berti
Pubblicato 31 Marzo 2025
Zelensky con Starmer e Macron

Volodymyr Zelensky (s), Keir Starmer e Emmanuel Macron (Ansa)

Starmer e Macron sembrano uniti nel guidare i "volenterosi" pro-Kiev, ma affrontano situazioni interne molto diverse

Keir Starmer ed Emmanuel Macron – co-leader dei cosiddetti “volenterosi” pro resistenza anti-Putin (e anti-Trump, anti-Nato) – sembrano avere poco in comune: premier laburista britannico il primo, presidente liberaltecnocratico francese l’altro. Certamente li sta rendendo alleati d’occasione l’ansia di protrarre lo stato di guerra fra Ucraina e Russia con altri mezzi, con soldi e soldati altrui, soprattutto: fra i sospetti che a muoverli siano fini di pura sopravvivenza politica e personale, non interessi collettivi democraticamente condivisi con i loro elettori e con i Paesi convocati a Londra e Parigi.


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Sicuramente, ambedue sembrano lontani dagli interessi dell’Ue: di cui Macron si atteggia a leader di fatto, ma con movenze rottamatrici; e in cui il premier britannico continua a guardarsi bene dal voler riportare la Gran Bretagna, reduce da Brexit. Quanto però rimanga larga la Manica fra Londra e Parigi – mediaticamente unite dietro Kiev – lo si è potuto osservare la settimana scorsa, nel giorno dell’ultimo vertice dei volenterosi.


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A Parigi Macron e Starmer hanno sì strappato l’ennesimo comunicato-stampa a generico favore della loro ricetta: più armi – cioè più debito – in Europa; e più sanzioni alla Russia, cioè più inflazione energetica per famiglie e imprese europee. Ma in Gran Bretagna, nelle stesse ore, la cancelliera dello Scacchiere Rachel Reeves ha annunciato una manovra primaverile di bilancio imperniata su tagli da 4,8 miliardi di sterline (5,7 miliardi di euro) al welfare, finalizzati principalmente a rimpinguare il bilancio militare per 2,7 miliardi di euro.

Questo in uno scenario di dimezzamento delle previsioni di crescita (dal 2% all’1% per l’anno in corso) e di rialzo delle stime d’inflazione (dal 2,6% al 3,2% medio). Per questo gli osservatori stanno fra l’altro dando per probabile un inasprimento fiscale nel budget 2026.


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Quella disegnata dal governo laburista appare dunque una fase churchilliana di “lacrime e sangue”. Un passaggio politico-finanziario che in Gran Bretagna era però maturo già nell’immediato post-Covid: prima dell’aggressione russa dell’Ucraina e della rielezione di Trump “dazista”. Lo stesso governo laburista ha vinto le elezioni del luglio scorso sulla stanchezza degli inglesi per 14 anni di politica tory incurante di occupazione, redditi, welfare pubblico. Ma lo stesso Starmer è subito scivolato di fronte alle sfide della “recovery” interna e rischiava di ruzzolare del tutto già prima delle presidenziali americane.

Ora tutto viene invece ri-narrato in chiave di crociata geopolitica: peraltro contro Usa e Russia, le due potenze con cui Londra si ritrovò alleata nella Seconda guerra mondiale in contrasto alla Germania nazista.

Sia il nuovo presidente Usa, sia il numero uno russo vengono accusati di fomentare l’instabilità globale, non di volere veramente la fine della guerra. E la Gran Bretagna s’intesta con la Francia la parte di leader di un’Europa “democratica” aggredita come nel 1940. Da est incomberebbe la minaccia d’invasione russa dell’intera Europa continentale, ritenuta certa dopo quella ucraina; e sul lato atlantico Trump starebbe mandando in pezzi anche la storica “relazione speciale” con gli Usa (sebbene la Casa Bianca abbia ricevuto Starmer fra i primi e non abbia mai attaccato Londra, che potrebbe essere meta di uno dei primi viaggi ufficiali di Trump).

Per questo ai cittadini andrebbe comunque tolto subito il burro per fondere “droni AI”, utili a una nuova “crociata occidentale”: che andrebbe lanciata dando subito per distrutta la Nato. Senza neppure confrontarsi con gli Usa sul futuro geopolitico-finanziario di un patto di sicurezza che ha garantito la pace in Europa negli ultimi 76 anni.

La realtà – neppure troppo nascosta – appare diversa. La principale preoccupazione del premier britannico sembra la salvaguardia-valorizzazione del grosso investimento strategico già effettuato sul teatro ucraino dai suoi predecessori tory (anzitutto dal super-guerrafondaio Boris Johnson). Sul fronte russo da tre anni gli apparati militari e d’intelligence britannici sono massicciamente in campo: a conferma di come per l’ex Impero britannico la geopolitica bellica resti un business-Paese, anche a partire dal rango status di media potenza nucleare, comunque superiore al mini-potenziale francese. Non può quindi sorprendere che un governo laburista in difficoltà abbia subito colto l’opportunità di una fuga in avanti geopolitica.

La dinamica appare analoga – a parti invertite – a quella della guerra della Falkland del 1982: quando furono i generali argentini a canalizzare nel nazionalismo militarista contro il Regno Unito le crescenti tensioni socioeconomiche interne. Né si può dimenticare il ruolo-chiave della Gran Bretagna laburista di Tony Blair a fianco degli Usa (repubblicani) nelle “operazioni militari speciali” in Afghanistan e Iraq dopo l’11 settembre.

A Londra lo spirito corsaro – guerriero e mercantile – della Compagnia delle Indie rimane vivo nel suo “deep state”, col volto di James Bond e la colonna sonora del Ponte sul Fiume Kwai. Ora contro entrambi gli “headquarters” di Bruxelles: Ue e Nato.

Sulla carta Starmer ha davanti a sé ancora quattro anni a Downing Street. Un margine che gli consente di ignorare i sondaggi secondo cui oggi il Labour difficilmente rivincerebbe nelle urne, arretrando davanti alla destra populista di Nigel Farage. La mossa “volenterosa” del premier – che metterebbe da subito sotto la soglia di povertà 250mila famiglie – si configura in ogni caso come il rinnegamento totale di quanto il Labour ha proposto un anno fa agli elettori britannici. Non da ultimo: Starmer sembra allineare tatticamente il Canada (Paese del Commonwealth, il cui capo di Stato è Re Carlo III). Un altro Paese “volenteroso”: non europeo, ma sia anglofono che francofono.

A Ottawa il nuovo premier Mark Carney è canadese di nascita ma britannico d’adozione, divenuto perfino governatore della Banca d’Inghilterra (la banca centrale della City). Indossati i panni del leader liberaldemocratico sopra quelli del “cosmocrate” finanziario, Carney ha subito chiesto elezioni anticipate e legittimazione popolare su un progetto di “resistenza” alla pressione degli Usa trumpiani sul Canada. Ma Carney resta anzitutto un senatore del Club di Davos – hub delle élites globaliste – che è stato l’obiettivo “antropologico” dichiarato dell’atto d’accusa del vice-Trump – JD Vance – nella trasferta d’esordio in Europa.

Il Canada, intanto, rimane un’immensa “terra di nessuno”: priva di alcuna protezione fra i 24.500 chilometri di costa artica russa e gli 8.800 chilometri di frontiera con gli Usa.

Se Starmer sembra potersi comunque permettere il suo azzardo sul piano politico-istituzionale, non così appare per l’attivismo frenetico e spregiudicato di Macron. Il presidente “napoleonico” che convoca settimanalmente i leader di decine di Paesi per decidere i destini del mondo al posto di Usa, Russia e Cina è nei fatti un capo di Stato più che dimezzato: con cui appare anzitutto difficile che i leader geopolitici davvero meritevoli del titolo possano negoziare impegni a medio-lungo termine. Primo fra tutti rimane silente e concentrato sull’agenda interna il cancelliere tedesco in pectore, Frederich Merz: il futuro leader del maggior Paese Ue ha buon gioco – in queste settimane – nel lasciar rappresentare Berlino ovunque da Olaf Scholz, già fantasma in patria e fuori.

Macron ha invece solo un paio d’anni di mandato davanti, non è rieleggibile e non è affatto escluso che debba lasciare prima: la Francia è nei fatti già impegnata nella selezione dei due candidati che si contenderanno il dopo-Macron. Dopo la pesante sconfitta all’euro-voto e la scommessa persa delle legislative anticipate il presidente non ha più in pugno il governo, benché la Costituzione semipresidenzialista gli consenta ancora di “presiedere” l’esecutivo e di gestire la politica estera e militare.

È stato d’altronde il suo leaderismo azzoppato a bruciare prima il premier post-gollista Michel Barnier e a tenere ora in mezzo al guado il centrista cattolico Francois Bayrou. Entrambi restano il simbolo di una Francia spaccata e paralizzata da un presidente mai veramente legittimato dagli elettori e ora palesemente abbandonato. Il Paese, intanto, è in crisi profonda: finanziaria, socioeconomica, forse anche istituzionale. I tre mesi dell’estate scorsa in cui Macron ha guidato da solo la Francia “con pieni poteri”, ritardando la formazione di un nuovo governo con il pretesto di una tregua olimpica, hanno sollevato più di un dubbio di legalità costituzionale.

I conti francesi preoccupano intanto Bruxelles più di quelli italiani. Parigi continua a non blindare una riforma previdenziale gemella di quella imposta all’Italia nel 2011 fra gli altri dal presidente Nicola Sarkozy e dal presidente della Bce Jean Claude Trichet.

All’Assemblea nazionale e nelle piazze francesi si oppongono tuttora le coccarde rosse della sinistra sindacale (che ha fatto nel Nouveau Front Populaire unito la prima forza parlamentare) e i micro-imprenditori in gilet giallo. Questi sono confluiti in massa nella destra lepenista (40% all’eurovoto) dopo aver messo a ferro e fuoco Parigi ancor prima del Covid. Bersaglio della loro collera era e resta la transizione verde euro-ideologica voluta da Macron, punitiva verso la Francia profonda, largamente sotto il reddito disponibile medio europeo.

È in questa cornice che Macron è l’araldo quotidiano del riarmo (Ue e/o “volenteroso”) da centinaia o migliaia di miliardi di euro mentre l’economia e il bilancio statale del suo Paese meriterebbero – a termini di manuale Ue – una cura di austerity “all’italiana”. Né Parigi sembra potersi permettere uno stimolo economico come quello impostato in Germania dalla Cdu vincitrice al voto.

Macron ha infatti piegato il braccio di Ursula von der Leyen su ReArm a debito quando Barnier (ex commissario Ue) è caduto davanti all’Assemblea francese su 60 miliardi di tagli nel bilancio nazionale: votati al rientro da un deficit doppio rispetto al parametro Ue. Fra gli obiettivi coperti dell’Eliseo c’è del resto un nuovo allentamento dei parametri europei “ad riarmo e ad Francia”: dopo di cui Macron potrebbe rivendicare di fronte al suo Paese di aver risolto per via politico-diplomatica la débacle finanziaria da lui stesso provocata.

L’Eliseo sta però tentando di estrarre dal cilindro un altro coniglio, ancora informe: un “fondo nazionale per il riarmo” finanziato da “privati”. Questi ultimi sarebbero anzitutto i grandi gruppi transalpini a controllo o partecipazione statale: in parte anche futuri destinatari delle commesse militari (fra questi anche Stellantis). E poi ci sarebbe la platea dei “volenterosi risparmiatori francesi”: magari “a loro insaputa” se le grandi banche e assicurazioni transalpine investissero nel riarmo nazionale dirigisticamente imposto dal presidente.

Giusto venerdì l’Eliseo ha annunciato l’addio del suo massimo funzionario, il segretario generale Alexis Kohler: andrà a ricoprire il ruolo di “direttore generale aggiunto” al vertice del gigante bancario Société Générale. Qui è tuttora presidente non esecutivo l’economista italiano Lorenzo Bini Smaghi. In questi giorni l’ex membro italiano dell’esecutivo Bce (con Trichet) è fra le voci più determinate in Italia a favore del riarmo europeo: a fianco del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dell’ex premier Romano Prodi, degli ex premier tecnici Mario Monti e Mario Draghi.

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