Riforma pensioni. Con l’apertura di un tavolo di confronto con le organizzazioni sindacali per valutare la possibilità di riformare ulteriormente l’età di pensionamento, il presidente del Consiglio Mario Draghi è riuscito nel contempo a stemperare le tensioni sociali suscitate dalla mancata proroga di Quota 100 e a confermare i limiti di spesa contenuti nella proposta di legge di bilancio 2022, circa 600 milioni di euro, per gli interventi sulle pensioni.
La mossa è abile, perché fissa dei paletti per gli eventuali emendamenti parlamentari nel percorso di approvazione della Legge di bilancio. Ma è di fatto destinata a tenere aperto il problema dei pensionamenti anticipati anche per gli anni a venire. Per due semplici ragioni. La prima è conseguente agli effetti di trascinamento dei costi dei pensionamenti anticipati nel corso del 2022 sugli anni successivi (almeno 1,7 miliardi per i prossimi tre anni che si aggiungeranno a quelli anticipati con la Quota 100). La seconda è di tipo squisitamente politico. Questi provvedimenti, anche se provvisori, finiscono per alimentare le aspettative dei potenziali pensionandi che si ritrovano esclusi per i limiti temporali imposti alle deroghe. Un meccanismo perverso che ha condizionato la storia delle riforme delle pensioni, a partire dalla Dini del 1995, e che si ripresenterà nel tavolo di confronto per gestire l’uscita dalla Quota 102 alla fine del prossimo anno.
Per disincentivare i pensionamenti anticipati il Governo intende mettere in campo l’ipotesi di calcolare integralmente gli importi con il metodo contributivo. Come già sottolineato in un recente articolo, le soluzioni di breve respiro hanno fatto perdere di vista i temi dell’equità dei trattamenti pensionistici tra le diverse generazioni e della sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale italiano. Una sostenibilità che dipende essenzialmente dalla capacità di mantenere in equilibrio il rapporto tra il numero dei lavoratori contribuenti attivi e quello dei pensionati sul medio e lungo periodo. Un rapporto destinato a peggiorare sensibilmente nei prossimi quindici anni per l’uscita dal mercato del lavoro delle generazioni del baby boom, che comporterà un aumento di circa 1,5 milioni del numero dei pensionati, a fronte di una riduzione di 4,5 milioni di persone in età di lavoro per l’effetto della decrescita della natalità sulla popolazione attiva.
L’arma di riserva per fronteggiare l’insostenibilità di questi numeri, già in corso per la quasi totalità dei fondi pensione gestiti dall’Inps, e che viene evocata soprattutto dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori dipendenti, è quella di separare i conti della previdenza da quelli dell’assistenza. Secondo questa tesi, i problemi della sostenibilità potrebbero essere definitivamente risolti scorporando dalla spesa delle pensioni le prestazioni che hanno una finalità sociale e che non sono relazionate ai contributi versati dai singoli lavoratori (integrazione delle pensioni minime, assegni sociali, pensionamenti anticipati di diversa natura, contributi figurativi, pensioni di invalidità…). Con i relativi oneri che dovrebbero essere integralmente messi a carico della fiscalità generale ripristinando una corretta lettura dei costi delle prestazioni previdenziali. Cosa che, allo stato attuale, avviene solo in parte.
Il tema è già stato affrontato con una legge, la n. 88 del 1989, che ha istituito il fondo per la gestione degli interventi assistenziali (Gias) presso l’Inps, dove confluiscono le risorse degli interventi a carico dello Stato per le finalità assistenziali, compresi quelle erogate dai singoli fondi previdenziali categoriali ai propri iscritti (dipendenti, autonomi, lavoratori pubblici, parasubordinati…). A questi fondi viene annualmente conferita una parte rilevante di queste risorse per compensare, pro quota, gli interventi di natura assistenziale erogati per le finalità assistenziali previste dalle normative (nel 2019 sono stati trasferiti per lo scopo circa 78,5 miliardi dei 114 miliardi conferiti dallo Stato all’Inps per il finanziamento degli interventi assistenziali erogati dall’Istituto).
Nel 2020 il complesso di questi trasferimenti ha raggiunto la cifra iperbolica di 140 miliardi, largamente superiore a quella dell’anno precedente (114 miliardi) per gli interventi straordinari legati alla crisi Covid. Un importo comunque destinato, secondo le stime più aggiornate, a rimanere superiore ai 120 miliardi anche per l’immediato futuro.
Negli ultimi 10 anni i trasferimenti della Gias ai fondi previdenziali sono aumentati dai 47 miliardi del 2011, sul totale degli 84 trasferiti dallo Stato, ai 93 miliardi del 2020. Con una crescita dei contributi trasferiti ai fondi e di quella complessiva della spesa pubblica assistenziale. Di rilievo l’importanza assunta dei trasferimenti a carico dello Stato per compensare i mancati versamenti dei contributi previdenziali da parte delle imprese per via delle agevolazioni rivolte a incentivare le nuove assunzioni (oltre 70 miliardi nei 5 anni precedenti la crisi Covid).
Un volume straordinario di spesa che non è bastato a contenere la crescita del numero delle persone in condizioni di povertà assoluta e relativa, e nemmeno per garantire la sostenibilità del sistema previdenziale.
I dati del bilancio gestionale e patrimoniale dell’ Inps sono eloquenti. Tutte le principali gestioni previdenziali risultano deficitarie e patrimonialmente indebitate. L’indebitamento patrimoniale del fondo dei lavoratori dipendenti (-100 miliardi) deriva per il 97% dagli effetti dell’incorporamento degli ex fondi pensionistici privi di sostenibilità (telecomunicazioni, elettrici, telefonici, dirigenti). A questi fondi si aggiungerà, a partire dal 2022, quello dei giornalisti.
Nei comparti dei lavoratori autonomi, il passivo patrimoniale dei fondi – coltivatori diretti (-90 miliardi), artigiani (-75 miliardi) commercianti (-13 miliardi) – viene parzialmente compensato dall’ attivo della gestione dei lavoratori parasubordinati (+131 miliardi). Un fondo di nuova generazione costituito nel 1996, con pochi pensionati attivi e con le rendite pensionistiche integralmente calcolate con il metodo contributivo. L’altro fondamentale contributo alla parte attiva del bilancio dell’Inps è fornito dall’attivo patrimoniale della gestione delle prestazioni temporanee (+205 miliardi), alimentato soprattutto dagli avanzi di gestione derivanti dai contributi per le casse integrazioni versati dalle imprese industriali e delle costruzioni.
Le criticità dei fondi previdenziali non si riflettono sul pagamento delle pensioni, perché garantite in ultima istanza dallo Stato, che ripiana in presa diretta anche il disavanzo dei fondi dei lavoratori pubblici (attualmente di 22 miliardi). Ma questa lettura consente di comprendere anche i livelli di solidarietà impliciti che avvengono all’interno del bilancio dell’Inps, grazie ai finanziamenti di una parte dei contribuenti che non beneficiano di prestazioni corrispondenti ai contributi versati, o dei titolari delle rendite pensionistiche ridimensionate della gestione separata, che sono in buona parte i giovani con contratti di collaborazione parasubordinati.
Sono numeri che dovrebbero far riflettere. Dinamiche destinate a cambiare radicalmente gli equilibri che hanno assicurato, con molte contraddizioni, la tenuta del sistema pensionistico. Soprattutto mettono in evidenza che la sostenibilità del sistema non dipende affatto dalla separazione contabile tra la previdenza e l’assistenza, ma dalla crescente iniezione di risorse da parte dello Stato per mantenere in equilibrio le prestazioni previdenziali. A scanso di equivoci è la strada evocata dalle organizzazioni sindacali che rivendicano l’introduzione di una pensione minima garantita per le rendite calcolate integralmente con il metodo contributivo.
Spostare una quota dei finanziamenti dai contributi previdenziali a quelli fiscali non risolve il problema. L’aumento del prelievo sui redditi o sul costo del lavoro produce entrambi i casi un disincentivo per la crescita dell’occupazione, senza trascurare che l’80% dell’Irpef proviene dai redditi dei lavoratori dipendenti e dei pensionati.
La via maestra rimane quella di mettere al centro gli obiettivi di aumentare l’occupazione, la produttività e i salari dei lavoratori. Che si possono ottenere aumentando la quantità e la qualità delle innovazioni produttive e sociali, non difendendo l’esistente.
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